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Washington e Gerusalemme ancora divise sul “dossier Iran”

Le divergenze, su cosa fare con l’Iran, ci sono, eccome. E si vedono. Così, salvo sorprese dell’ultimo minuto, l’incontro del 5 marzo tra il premier dello Stato ebraico, Benjamin Netanyahu, e il presidente Usa, Barack Obama, finirà in un nulla di fatto.

Un’anticipazione è arrivata mercoledì 29 febbraio. A Washington, Ehud Barak, ministro israeliano della Difesa, ha cercato di «preparare il terreno» per un accordo tra i due Paesi. Ma niente. Al di là degl’intenti e delle foto di circostanza, il segretario americano della Difesa Leon Panetta, ha sintetizzato a Barak quel che Obama dirà a Netanyahu: gli Usa non approvano l’intervento israeliano sul suolo iraniano. «Qualsiasi azione militare dello Stato ebraico contro Teheran non farà altro che minacciare la fragile stabilità dell’intera area e rischia di mettere a repentaglio tutto il personale americano presente in Afghanistan e Iraq, due Paesi che confinano con l’Iran». «Il nostro approccio è quello di perseguire in qualsiasi modo la via diplomatica per risolvere la questione nucleare con la Repubblica islamica», ha chiarito Jay Carney, portavoce della Casa Bianca.

E allora, ancora prima dell’incontro ufficiale che potrebbe cambiare le sorti dell’area, Washington fa già intuire di aver deciso di respingere i due punti chiave del colloquio richiesti esplicitamente da Gerusalemme. Il primo: gli Usa non hanno nessuna intenzione di fissare una «linea rossa» al programma atomico iraniano. «Linea rossa» che, se attraversata, farebbe scattare immediatamente l’intervento militare contro Teheran. L’orientamento della Casa Bianca, sarebbe, come lo spiega più di un analista, «quello delle tante linee rosse».

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente americano Barack Obama (Reuters)

Il secondo punto respinto da Obama riguarderebbe i piani d’intervento. Gl’israeliani continuano a sostenere che per quanto riguarda il dossier iraniano «sul tavolo si trovano tutte le opzioni, compresa quella militare». Washington ritiene l’ingresso in campo dell’esercito un’alternativa da non percorrere in questo momento (lì, come in Siria, del resto), proprio per salvaguardare anche gl’interessi a stelle e strisce ed evitare di far scoppiare l’area. E quindi in caso di attacco militare israeliano, difficilmente gli Usa si esporrebbero in prima linea. L’unica cosa che Washington potrebbe fare per Israele è quella di mettere a disposizione dei caccia militari dello Stato ebraico i mezzi per il rifornimento aereo. «C’è ancora tempo e spazio per la diplomazia», è il ragionamento degli americani. E se tutto questo non basterà, si potrà pensare alle sanzioni. Cosa, quest’ultima, che Netanyahu ritiene non serva a nulla. Obama vuole vedere prima cosa esce dall’incontro tra i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (più la Germania) e l’Iran che si svolgerà ad aprile a Istanbul.

Sullo sfondo ci sono le parole – fatte arrivare a Obama – che sarebbero state pronunciate dal premier israeliano Netanyahu in una riunione ristretta del governo a Gerusalemme: «Se il presidente americano non ci appoggia può scordarsi l’appoggio dell’Aipac (il più potente gruppo di pressione a Washington e fortemente filo-israeliano) alle prossime elezioni».

Non si ricordava un momento di tensione dal maggio dello scorso anno. In quell’occasione, Netanyahu andò a far visita a Obama per cercare di risolvere la questione dello Stato palestinese, delle colonie in Cisgiordania. Ma non ci fu nulla da fare. Gli Usa restarono sulle proprie posizioni. Israele pure. E così «Bibi» se ne tornò a casa con un alleato storico sì, ma sempre meno propenso ad assecondare le richieste dello Stato ebraico.

© Leonard Berberi

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Gli Usa, Israele e quel rapporto “speciale” con i mujaheddin iraniani

Operazioni segrete e spettacolari. Alleanze strategiche con i mujaheddin. Ingresso nei paesi nemici con passaporti americani e britannici. Telefonate roventi da un capo all’altro del mondo. Minacce. Piccole ritorsioni. Tentativi per far saltare la copertura agli agenti in servizio. C’è ormai di tutto nel lungo e corposo dossier Israele-Iran. Con storie e personaggi ed enigmi che ormai si estendono da Washington a Baku, da Londra a Gerusalemme, da Teheran a Parigi.

Insomma, materiale per un film. E che film. Soltanto che qui, all’ombra si muovono personaggi mai sentiti prima, sigle quasi sconosciute al pubblico occidentale. Vengono fuori accordi «al limite» da parte israeliana pura di sconfiggere il «Satana» Iran, pur di scrollarsi di dosso quello che, oggi, appare come il pericolo più grande per l’esistenza stessa dello Stato ebraico.

Ma prima di entrare nel dettaglio, una precisazione. Non è facile, per chi segue queste vicende per lavoro (e passione), trovare un filo conduttore logico, in modo da poter scartare quella che è una «polpetta avvelenata» da quella che non lo è. Ora più che mai, c’è in giro tutta una rete di personaggi, appartenenti a questo o a quel istituto di analisi geopolitica, che in realtà è qualcuno che ha più di un piede in qualche ufficio locale dei servizi segreti. Personaggi che, tutto d’un tratto, si fanno prendere dalla voglia di dire qualcosa – meglio: di sussurrare – anche al più giovane giornalista. Tutto questo per anticiparvi che più i venti di guerra si faranno potenti, più sentirete/leggere tutto e il contrario di tutto. Stavolta non si farà eccezione.

E allora. Il materiale per un film, dicevamo. La pellicola, per rimanere in tema, potremmo farla partire il 12 novembre 2011. Quando Modarres (o Sajad, secondo altri, nella foto sopra), una base militare iraniana viene distrutta da una (o due) esplosioni che scuotono anche la capitale Teheran, distante circa 40 chilometri. Muoiono, ufficialmente, 17 soldati. Anche se un’altra contabilità di vittime militari ne registra 40. Tra questi, c’è sicuramente il generale Hassan Tehrani Moqaddam, direttore della struttura e personaggio chiave della corsa agli armamenti della Repubblica islamica.

Quella di Modarres-Sajad non è una base qualsiasi. Secondo l’Intelligence israeliana qui si trova la maggior parte dei missili Shehaab-3 (“Meteora”, in persiano), quelli in grado di percorrere fino a 1.280-1.300 chilometri e quindi di minacciare il territorio ebraico, e anche i terra-terra Zelzal-2 (“Terremoto”). Sempre qui si troverebbe anche il laboratorio che ha dato vita agli Shehaab-4, missili ancora più potenti, in grado – secondo la difesa iraniana – «di arrivare nello spazio». Potenzialmente, in grado di raggiungere qualsiasi nazione sulla Terra.

Non era mai successo prima una cosa del genere a una base militare iraniana così sorvegliata. C’è chi ha parlato di «incidente», ma indagini successive dimostrano che a provocare l’esplosione sarebbero stati i membri del Mek in collaborazione con il Mossad. E qui, per la prima volta, entra in scena la formazione paramilitare «Mujahadeen al-Khalq» (Mek). Si tratta di una organizzazione di esuli iraniani che si batte contro le Guardie della rivoluzione che governano nel Paese. Esistono dal 1965 e hanno due basi operative: Parigi (sede “diplomatica”) e Camp Ashraf, in Iraq, la sede “militare”, dove si formano squadriglie, dove si allenano, dove pianificano le mosse anti-Teheran. Dal 2001, il gruppo ha rinunciato alla violenza e s’è unito al Consiglio nazionale di resistenza iraniana. Ma non hai mai di fatto smesso con le armi, per ora con un solo obiettivo: riportare la Repubblica islamica nelle mani del popolo.

Ecco, dice più d’uno, che «il lavoro fatto a Modarres-Sajad è quello tipico del Mek, stavolta con un appoggio logistico non indifferente del Mossad». La voce, sempre smentita ovviamente dagl’israeliani, è stata confermata però in una recente intervista esclusiva a Brian Williams, sulla Nbc americana, da due alti funzionari militari Usa. Insomma, sostengono le fonti che sì, «il servizio segreto israeliano ha reclutato, preparato, dotato e diretto una campagna di attacchi terroristici domestici in Iran, contro esponenti del programma nucleare locale e ricorrendo al “personale” del Mek». Gli stessi esponenti dei Mujahadeen al-Khalq sarebbero attivi anche negli omicidi mirati, gli autori materiali delle esplosioni nelle auto e nelle moto guidate da scienziati di Teheran.

La collaborazione Mossad-Mek pare vada avanti da mesi. Gli Usa hanno ammesso di sapere della collaborazione, ma hanno anche precisato di non avere nulla a che fare con questa scia di sangue. Nemmeno gl’iraniani si mostrano molto sorpresi. «Sappiamo che Israele sta pagando i mujaheddin e che alcuni di questi stanno passando informazioni agli agenti ebrei. Sappiamo anche che il Mossad sta addestrando molti membri del Mek».

In realtà, come dimostrato dalle foto e dai molti convegni fatti negli Stati Uniti, quelli del Mek – pur essendo ufficialmente nella lista del terrore del Dipartimento di Stato Usa – godono di un vasto appoggio politico-diplomatico proprio tra molti americani. Basti sapere che dall’ambasciatore all’Onu John Bolton all’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, dal generale Wesley Clark ad Howard Dean, decine di personaggi influenti hanno chiesto al presidente Obama di cancellare il Mek dalla lista nera.

Non solo. Già nel 2009, in un seminario chiamato “Which path for Persia?” (Quale percorso per la Persia?) a Brooking Institute fu proposto – esplicitamente – di «armare, in maniera completa, addestrare e sostenere i Mek» per favorire la loro campagna contro l’Iran. Scrisse la relazione finale del think tank americano: «Un movimento di opposizione di lunga data al regime iraniano e il resoconto degli attacchi riusciti e delle operazioni di raccolta di informazioni di intelligence contro il regime, lo rendono meritevole del sostegno degli Stati Uniti» (clicca qui per il leggere il documento completo). L’anno prima, una firma del giornalismo, Seymour Hersh, si era spinto oltre, sostenendo che «negli ultimi anni il gruppo (il Mek) ha ricevuto armi e informazioni d’intelligence, direttamente o indirettamente, dagli Usa».

Dunque, quelli del Mek non sono solo «burattini» mossi da Israele, ma anche – forse – dall’amministrazione Obama. Non sorprendono, allora, le visite «segrete» del numero uno del Mossad, Tamir Pardo, tra gennaio e febbraio di quest’anno. Secondo il «Daily Beast» Pardo sarebbe andato in America «per capire come reagirebbero gli americano di fronte a un attacco dello Stato ebraico sul suolo iraniano». Ma nello stesso tempo, gl’israeliani avrebbero anche smesso di passare informazioni riservate ai colleghi statunitensi. Certo è che nelle ultime settimane c’è un po’ di nervosismo tra Cia e Mossad: sarebbero stati scoperti altri 007 israeliani in possesso di passaporti stranieri, britannici e americani, soprattutto.

In tutto questo, l’agenzia stampa iraniana di Stato, l’Irna, ha raccontato della lavata di capo fatta all’ambasciatore dell’Azerbaigian a Teheran dopo che è venuta fuori la notizia di un passaggio fin troppo facile di agenti del Mossad dalla capitale azera all’Iran. Secondo l’Irna, «il ministro iraniano degli Esteri ha inviato una nota di protesta a Javanshir Akhundov, ambasciatore dell’Azerbaigian, chiedendo la fine immediata delle operazioni anti-iraniane del Mossad sul suolo della Repubblica islamica».

Sul piano militare due sono le novità sul fronte di Teheran. Da un lato, l’allarme lanciato dal vice ammiraglio Usa Mark Fox, comandante della flotta operativa nel Golfo Persico: «L’Iran sta preparando le imbarcazioni in modo da essere usate anche per gli attacchi suicidi». E ancora: la Repubblica islamica «ha aumentato il numero dei sottomarini (dieci, secondo l’ultima contabilità) e delle navi veloci nei pressi dello Stretto di Hormuz. Alcune di queste possono essere adattate a modalità di attacco suicida, del resto il Paese ha un vasto repertorio di mine». L’altra novità è quella relativa all’esplosione dell’auto della moglie di uno dei diplomatici israeliani all’ambasciata di Nuova Delhi, in India, e l’attentato sventato a Tbilisi – in Georgia – sempre contro la cancelleria israeliana nel Paese. Solo un ferito, per ora, ma l’allerta è al livello massimo.

Infine, il capitolo «Atarodi». Lo scorso fine gennaio uno scienziato iraniano esperto in microchip, Seyed Mojtaba Atarodi (foto sopra), 54 anni, è stato arrestato negli Usa per aver violato, secondo l’accusa, le leggi sulle esportazioni di materiale sensibile. Atarodi è professore all’Università di tecnologia Sharif, a Teheran ed è stato già arrestato a Los Angeles il 7 dicembre 2011. Ma fino ad ora le prove contro di lui, così come la vera accusa restano secretate.

© Leonard Berberi
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La Siria e quel “patto col diavolo” con l’Iran: ecco il documento

Il «patto col diavolo» sarebbe stato firmato lo scorso dicembre. È un documento-bomba. Lungo nove pagine, fitte fitte, scritte in arabo e con tanto di tabelle e cifre dettagliate. A siglarlo a Damasco, nel bel mezzo della rivolta civile per ora repressa nel sangue, la Siria del presidente Assad e i più alti funzionari iraniani. Il «patto col diavolo» è stato reso pubblico dal gruppo di hacker Anonymous – gli stessi che hanno mostrato il “carteggio” di mail tra il regime siriano e lo staff della tv americana Abc – e ha già messo in allarme l’intelligence israeliana e americana. Il perché è molto semplice: l’accordo Siria-Iran è un impegno, da parte di entrambi i Paesi, ad aiutarsi a vicenda: Teheran dà una mano a Assad nella repressione delle richieste di maggiore democrazia nel Paese, Damasco si impegna a mettersi a fianco alla Repubblica islamica quando ce ne sarà bisogno.

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È lo scenario che gl’israeliani più temono. La possibilità di essere attaccati da nord (dagli Hezbollah in Libano e dal regime siriano) e da sud (da Hamas a Gaza e da gruppi paramilitari egiziani) nel bel mezzo di una guerra con l’Iran. Un dispiegamento di forze che Gerusalemme – per stessa ammissione dei vertici militare israeliani – non sarebbe in grado di reggere. Uno scenario che avrebbe prodotto già due effetti: l’utilizzo più intensivo degli agenti del Mossad presenti in Iran da alcuni mesi e la possibilità di distruggere – nel modo meno spettacolare possibile – il deposito di armi nucleari più pericoloso nella Repubblica Islamica: quello di Fardu (di cui abbiamo parlato ieri), nei pressi di Qom.

Il carteggio che allarma le cancellerie di mezzo mondo arriva direttamente dalla casella di posta di Mansour Azzam, il ministro per gli Affari presidenziali, il braccio destro del dittatore Assad. Nel documento d’intesa tra Siria e Iran – titolato «Memorandum sulla visita della delegazione iraniana in Siria» – si viene a sapere che il regime di Teheran stanzia almeno 1 miliardo di dollari di aiuti a Damasco. Soldi in grado di attenuare gli effetti dell’embargo imposto dall’Occidente (sul petrolio, sui voli e sulle transazioni finanziarie) alla Siria.

Nell’incontro tra i vertici dei due Paesi – avvenuto alle ore 13 di giovedì 8 dicembre 2011 – ci sono, da un lato, 10 consiglieri «anziani» del presidente Ahmadinejad, rappresentanti della Banca centrale iraniana, di alcuni ministeri e «specialisti in questioni commerciali, industriali, bancari, edilizi e d’ingegneria». C’è anche Ahmed Waheed, il ministro della Difesa. Dall’altra parte del tavolo si trovano il premier siriano Adel Safar, il numero uno della Banca centrale del Paese e i ministri delle Finanze, del Commercio e del Petrolio.

Le prime due pagine del documento di accordo tra Siria e Iran

La Repubblica islamica si impegna ad aiutare il regime di Damasco non solo economicamente, ma anche acquistando dal mercato siriano beni di prima necessità come il grano, la frutta, l’olio di oliva, la carne rossa («di pecora», per almeno 10mila tonnellate), il pollame (altre 10mila tonnellate), le uova, la verdura e gli agrumi. In cambio, gl’iraniani si impegnano a portare in Siria fertilizzanti, prodotti chimici e materie prime per l’industria petrolchimica. Nel dettaglio: 100 mila tonnellate di nitrato di ammonio e 25 mila tonnellate di solfato di potassio. Un capitolo, questo, che preoccupa gl’israeliani, se è vero che molte delle bombe fabbricate attorno a Israele contenevano un’alta percentuale di fertilizzante arrivato dall’Iran.

Nel documento d’intesa, due sono i blocchi di accordo: quello che riguarda le «questioni urgenti (a breve termine)» e quello alle «questioni relative alla cooperazione (a lungo termine)». Rientrano, nel primo gruppo, per esempio, i beni alimentari che dovranno essere esportati verso l’Iran. Nel secondo blocco, invece, rientrano i piani «per lo sviluppo industriale, delle infrastrutture, del settore elettrico ed energetico, in particolare la creazione di centrali elettriche e delle raffinerie». Si accenna anche alla costruzione di migliaia di abitazioni «civili», senza scendere più di tanto nel dettaglio.

C’è anche un accordo che viene confermato per la prima volta: la costruzione di condutture di gas sull’asse Iran-Iraq-Siria e che arriva dritta al Mediterraneo. Non solo. Tra gli accordi con Baghdad, emerge anche la creazione di una vera e propria autostrada per il trasporto su gomma delle merci dall’Iran verso Damasco e la nascita di «uno spazio aereo comune con l’Iraq dopo il ritiro delle truppe statunitensi». Trattative avanzate Iran-Iraq ci sarebbero anche nel campo ferroviario dove, «entro il 2012 saranno completate le costruzioni di alcune tratte». Nel documento si parla esplicitamente anche della realizzazione di «un passaggio sicuro per il trasferimento dei beni dall’Iran alla Siria attraverso l’Iraq e viceversa».

Il presidente siriano Assad e quello iraniano Ahmadinejad

E ancora. A dimostrazione di quanto gl’iraniani siano determinati ad andare in guerra con Israele e gli Usa, nell’accordo c’è anche la richiesta alla Siria di 40mila tonnellate di filo di cotone per – com’è scritto esplicitamente – «la realizzazione dell’abbigliamento per le forze armate iraniane».

Rientra, in tutto questo, anche una specifica richiesta di Teheran al regime di Damasco: «La parte iraniana chiede alla Siria ulteriori impianti per la ricezione delle navi iraniane». La Repubblica islamica vuole una volta per tutte metter piede nel Mediterraneo? Il progetto è ormai pubblico da un anno, ma solo ora diventa una richiesta-obbligo. Certo, a un prezzo: 150mila barili di petrolio siriano che saranno comprati dall’Iran ogni giorno, anche se Teheran non ne ha proprio bisogno.

Quindi gli equilibri mondiali alle Nazioni Unite. Sul perché Cina e Russia abbiano votato contro a una risoluzione Onu anti-Assad lo spiega il documento-accordo: «le transazioni finanziarie di Siria e Iran, dopo l’avvio dell’embargo contro i due paesi, passano attraverso gli istituti bancari della Russia e della Cina». Non è la prima volta che, almeno la Cina, compare in queste triangolazioni finanziarie tra i «paesi canaglia». Un dossier corposo è presente alla sede della Cia e del Mossad con tanto di elenco delle transazioni di denaro effettuate tra Hamas, Hezbollah e le banche cinesi.

E allora ecco che gl’israeliani accelerano. Dando l’ordine di intensificare le operazioni. Decine di agenti, arrivati dalla base presente in Azerbaigian, si troverebbero in Iran operativi da mesi. Sarebbero proprio loro i killer di alcuni membri del progetto nucleare uccisi per le vie di Teheran e non solo. Una base di partenza, quella di Baku, la capitale azera, che da qualche giorno è in stato di massima allerta dopo aver sventato una serie di attentati alla sede dell’ambasciata israeliana. «L’Iran è un paese decisamente poroso», ha detto un agente israeliano al giornale britannico “The Times”. «Il 16% della popolazione azera ha origini iraniane e gode della facilità nei trasporti, alla dogana non ha bisogno di un visto d’ingresso». Un trattamento di favore che, proprio da qualche giorno, non sarebbe più tale, se è vero che sempre più spesso la cancelleria di Baku a Teheran si è lamentata dei maltrattamenti nei confronti dei propri cittadini. Per questo, lo Stato ebraico ha deciso di rafforzare i legami con un gruppo paramilitare iraniano attivo nel Paese.

© Leonard Berberi

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