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La nuova vita degli ebrei in Iran: “Ci sentiamo al sicuro”

Un iraniano di religione ebraica prega alla sinagoga di Molla Agha Baba Synagogue, a Yazd, 676 chilometri a sud di Teheran, la capitale dell'Iran (foto di Ebrahim Noroozi/Ap)

Un iraniano di religione ebraica prega alla sinagoga di Molla Agha Baba Synagogue, a Yazd, 676 chilometri a sud di Teheran, la capitale dell’Iran (foto di Ebrahim Noroozi/Ap)

Dice Mahvash Kohan che ora va meglio. Che ora, addirittura, «nessuno se ne vuole andare da qui». «Non come negli anni Ottanta, quando avevamo paura ed eravamo sotto pressione – racconta –. Oggi non siamo più preoccupati. Ci sentiamo al sicuro e gustiamo la libertà».

Kohan è una donna iraniana ed ebrea. Vive a Shiraz, 940 chilometri a sud di Teheran. Qualche giorno fa è stata a Yazd per un pellegrinaggio alla tomba di Harav Oursharga. Ed è lì, in quella città che ha tenuto ancora molto dell’antica Persia, che ha raccontato all’Associated Press la nuova vita di chi come lei, vive sì nello Stato islamico, ma che da decenni si sente minoranza minacciata per via della religione.

Il fatto è che in Iran gli ebrei ci vivono da più di tremila anni. E quella iraniana rappresenta la comunità ebraica più numero del Medio Oriente. Israele esclusa, ovvio. I numeri si sono ridotti e di molto, soprattutto dopo la Rivoluzione khomeinista del 1979: migliaia di persone hanno lasciato il Paese, spaventate dalla piega religiosa.

La preghiera nella sinagoga di Yazd con i tefillin (i filatteri) e altri simboli religiosi (foto di Ebrahim Noroozi/Ap)

La preghiera nella sinagoga di Yazd con i tefillin (i filatteri) e altri simboli religiosi (foto di Ebrahim Noroozi/Ap)

Oggi ne sono rimasti circa 20 mila. Su 77 milioni di abitanti. Ma alcuni di loro, intervistati, spiegano che è cambiato qualcosa. E tutto questo, secondo la signora Kohan e tanti altri, succede soltanto da qualche mese e grazie a una persona: Hassan Rouhani, il presidente moderato che ha preso il posto del più radicale Mahmoud Ahmadinejad.

«Il governo stavolta ha sentito la nostra voce e le nostre preoccupazioni. Il fatto che veniamo quantomeno sentiti è una svolta importante», spiega Homayoun Samiah, numero uno dell’Associazione degli ebrei di Teheran. «Ma quando c’era l’altro presidente, Ahmadinejad, nessuno ci dava retta». Ahmadinejad nei discorsi pubblici ha detto più volte che l’Olocausto era un’«invenzione». Nel 2006 sponsorizzò pure una conferenza internazionale organizzata per discutere se il genocidio degli ebrei avesse mai avuto luogo durante la Seconda guerra mondiale.

L'ingresso della sinagoga di Molla Agha Baba di Yazd (foto di Ebrahim Noroozi/Ap)

L’ingresso della sinagoga di Molla Agha Baba di Yazd (foto di Ebrahim Noroozi/Ap)

Per questo Rouhani è una boccata d’ossigeno un po’ per tutti. Tanto che – raccontano gli stessi iraniani – ha permesso alle scuole ebraiche di restare chiuse di sabato per osservare lo Shabbat e ha pure donato 400 mila dollari a un’associazione benefica di Teheran. L’ultimo volta, poi, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di New York s’è portato pure l’unico deputato ebreo.

I gruppi per il rispetto dei diritti umani, però, non esultano. Denunciano che ancora oggi gli ebrei e le altre minoranze sono discriminate dai vertici dello Stato islamico. Ricordano che la tv di Stato iraniana ha trasmesso nel recente passato diversi programmi antisemiti. Ma «qualcosa» è meglio di «niente», almeno nella testa della signora Kohan. «Se siamo qui a Yazd è per celebrare il fatto d’essere ebrei – continua lei –. Siamo orgogliosi di praticare in piena libertà la nostra religione».

© Leonard Berberi

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La radio militare: “Obama in Israele per dire a Netanyahu di non bombardare l’Iran”

Fermi tutti. Prima della guerra è tempo di far la pace con i vicini. Poi, magari, se proprio non si può far nulla, allora si potrà premere il tasto. E lanciare una guerra con quegli altri. Ma ora no. Non è il tempo più adatto per far deflagrare tutto.

«Ma Obama che viene a fare in Israele a marzo?», si sono chiesti in molti nello Stato ebraico. «A dire al premier Netanyahu di non bombardare l’Iran», ha risposto domenica la radio militare israeliana, fonte inesauribile di notizie e indiscrezioni, rivelazioni e anticipazioni. Proprio così: a fermare la mano militare di «Bibi». Che, di fronte alla platea delle Nazioni Unite – lo scorso autunno – disse chiaramente che per Israele la linea rossa temporale è la primavera 2013. Questa primavera.

Da settimane – secondo i bene informati – da Gerusalemme chiamano Washington. Da settimane lo staff di Netanyahu preme per una posizione chiara degli Usa su quello che stanno facendo nei laboratori nucleari di Teheran. Posizione che chiara non è. E che, anzi, negli ultimi giorni ha preso una svolta che gl’israeliani hanno definito «drammatica», con quel tentativo di Washington di iniziare addirittura un negoziato con l’Iran. Per far parlare i trattati e gli accordi, non le armi. Per ora da Teheran hanno risposto picche. E mai risposta fu bella proprio per Gerusalemme, da mesi ormai impegnata a cercare il momento per annichilire la minaccia nucleare del regime di Ahmadinejad.

Il presidente americano Barack Obama e il premier israeliano Benjamin Netanyahu nel cortile della Casa Bianca, dietro l'ufficio ovale, il 20 maggio 2011 (foto Avi Ohayon  / Government Press Office / Flash90)

Il presidente americano Barack Obama e il premier israeliano Benjamin Netanyahu nel cortile della Casa Bianca, dietro l’ufficio ovale, il 20 maggio 2011 (foto Avi Ohayon / Government Press Office / Flash90)

Obama in Israele, dicevamo. Il presidente rieletto non vuole «problemi» nel suo secondo mandato. Anzi. Vorrebbe proprio cercare di meritarsi il Nobel per la pace. «Il presidente americano teme che il primo ministro decida di attaccare Teheran proprio in queste settimane, agli inizi del suo secondo mandato», hanno detto fonti militari alla radio militare israeliana. A preoccupare il leader democratico è anche la nuova composizione del governo: Dan Meridor e Benny Begin, i due principali oppositori all’attacco all’Iran, non sono stati rieletti alle elezioni del 22 gennaio. Netanyahu ora non ha membri dell’esecutivo ostili all’offensiva.

A Gerusalemme, Obama – sempre secondo la radio militare israeliana – offrirà in cambio a Netanyahu l’assicurazione che «gli Usa non permetteranno che l’Iran si doti della bomba nucleare». «Obama ha deciso di presentarsi di persona nello Stato ebraico – ha sottolineato ancora la radio militare israeliana – per dire a Netanyahu, guardandolo negli occhi: “Non attaccare l’Iran. Lascia fare a me, se sarà necessario agiremo contro di loro, anche perché voi non avete la nostra dotazione militare».

In realtà non sarà così facile convincere Netanyahu. Ad allarmare Gerusalemme è anche la notizia – riportata dal Washington Post – che racconta dei tentativi iraniani e del movimento sciita libanese Hezbollah di creare un network di milizie in Siria per proteggere i loro interessi in caso che il regime di Assad perda il potere. Al quotidiano americano l’avrebbero confermato sia funzionari Usa che mediorientali. Si tratterebbe di milizie che ora combattono a fianco del regime contro i ribelli. Il “progetto” iraniano sarebbe quello di avere una forza affidabile a cui fare riferimento nel caso in cui la Siria, con il crollo di Assad, si ritrovi divisa.

Ma non c’è solo questo. Obama in Medio Oriente non atterra soltanto per fermare Israele sul regime degli ayatollah, ma anche per discutere sulla Siria e per riportare al tavolo dei negoziati lo Stato ebraico e l’Autorità nazionale palestinese. Secondo la radio militare israeliana con la mediazione della Giordania, Obama vorrebbe riportare al confronto il premier Netanyahu, il presidente dell’Anp Mahmoud Abbas e il monarca di Amman, re Abdullah. «Forse il presidente americano si porterà un po’ troppe questioni fondamentali per l’area», commenta più di un analista. Che ora aspetta di vedere quali argomenti, alla fine del viaggio, saranno davvero affrontati e quali no.

© Leonard Berberi

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Stessa vicenda, stesso giornalista, articoli diversi: il caso “Maariv” – “Makor Rishon”

Stesso evento. Due articoli opposti. Entrambi scritti dallo stesso giornalista. Possibile? Possibile. Almeno in Israele. Dove, causa crisi dell’editoria senza precedenti, i quotidiani si comprano a vicenda, gli editori s’incrociano e s’accavallano, i conflitti d’interessi galoppano. E l’obiettività della professione? Dipende. Dalla testata, soprattutto.

Succede tutto all’interno del gruppo editoriale di Shlomo Ben-Tzvi – magnate dei media e casa a Efrat, insediamento ebraico in Cisgiordania – tra il quotidiano “Makor Rishon” (di orientamento religioso e nazionalista) e “Maariv”, storica testata moderata acquistata a novembre. Assaf Gibor, cronista degli affari che si muovono nel mondo arabo, viene incaricato di seguire la visita “storica” martedì scorso del presidente iraniano Ahmadinejad in Egitto e di scrivere due articoli: uno per “Makor”, l’altro per “Maariv”. Risultato: i due articoli – fanno notare quelli di Presspectiva, associazione che monitora la stampa locale – non solo sono diversi, ma anche nel titolo si collocano agli estremi.

I due titoli a confronto: sopra quello di "Makor Rishon", più in basso quello di "Maariv". Entrambi gli articoli sono stati scritto dello stesso giornalista (foto Presspectiva / Falafel Cafè)

I due titoli a confronto: sopra quello di “Makor Rishon”, più in basso quello di “Maariv”. Entrambi gli articoli sono stati scritto dello stesso giornalista (foto Presspectiva / Falafel Cafè)

«Il presidente iraniano Ahmadinejad ricevuto con tutti gli onori in Egitto», titola “Makor Rishon”. Dato lo stesso proprietario e – accusano in molti – la stessa linea editoriale, in molti s’aspettavano più o meno lo stesso titolo anche per “Maariv”. E invece, ecco la sorpresa. «Accoglienza fredda per Ahmadinejad in Egitto» è l’apertura di pagina del quotidiano moderato.

La storia cambia poco anche nei due articoli. Scritti dallo stesso cronista. Nelle prime righe del pezzo per “Maariv”, fa notare Presspectiva, «Assaf Gibor scrive che se in un primo momento Ahmadinejad è stato accolto con le fanfare all’atterraggio al Cairo, poi racconta che il presidente iraniano è stato attaccato da una cittadina siriana». Due elementi che non si trovano nella versione per “Makor Rishon” che, però, aggiunge la visita all’università Al-Azhar. Visita soltanto accennata in “Makor”, mentre su “Maariv” si racconta che all’interno dell’ateneo c’è stato un complicato colloquio con il grande imam Ahmed Mohammed el-Tayeb.

© Leonard Berberi

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