Era impossibile salvarli. Non c’è mai stata nemmeno la minima chance di rivederli vivi. Perché sono stati uccisi quasi subito. E gettati, come fossero oggetti, nel primo spazio disponibile. Lontani da occhi indiscreti e da strade ad alta percorrenza.
I vertici militari israeliani e i servizi segreti lo sapevano dal secondo giorno del rapimento. Troppi palestinesi, tra quelli fermati, fornivano la stessa versione: «Inutile cercarli, sono già morti. Il rapimento ha fatto troppo rumore, così se ne sono sbarazzati subito». Eppoi c’erano i risultati della Scientifica sulla Hyundai i35 usata per portarli via e poi data alle fiamme. C’erano colpi di pistola incastrati sui sedili posteriori. E qualche chiazza di sangue.
Resta ora da capire, nel pieno dell’emotività collettiva, se gli autori abbiano agito per convinzione, dietro un mandato preciso o, più banalmente, se erano criminali comuni che non hanno avuto di meglio da fare che rapire tre adolescenti e poi ucciderli. Un dettaglio, forse. Ma anche l’unico discrimine tra la guerra e la presa d’atto che il mondo va così, che il Male esiste e bisogna conviverci. O, almeno, provarci.
Termina nel più drammatico dei modi la ricerca dei sedicenni ebrei Naftali Frankel, Gil-ad Shaar e del 19enne Eyal Yifrach. L’ultima volta li hanno visti la sera del 12 giugno a pochi passi da Gush Etzion, insediamento popolato in Cisgiordania. Da quel momento è stato un continuo perquisire e bussare casa per casa, un lungo elenco di persone arrestate e una sfilza di polemiche da riempire giornali e servizi televisivi.
Poi la svolta drammatica, lunedì 30 giugno. I tweet criptici dei giornalisti israeliani. L’ordine del governo dello Stato ebraico che impone il silenzio a chi già sa che sono morti. Ma intanto la voce si sparge. Al Jazeera e Lbc, la tv del Libano, danno la notizia. «È difficile twittare tutte le informazioni che ho raccolto in questo momento sui ragazzi rapiti. La censura militare è davvero forte», si sfoga sul social network il cronista Barak Ravid che per il quotidiano Haaretz copre la sicurezza nazionale. Intanto una sessione del parlamento viene annullata all’ultimo minuto.
Poi il via libera alla divulgazione. E l’ufficializzazione di una cosa che ormai si sapeva da più di un’ora. Naftali, Gil-ad e Eyal non torneranno mai più a casa. I loro corpi sono stati trovati vicino Halhul, cinque chilometri a nord di Hebron. Di fatto non si sono mai allontanati dall’area delle ricerche.
In Israele centinaia di persone scendono in strada e pregano. Accendono candele. Cantano. Per le 21.30 locali (le 20.30 in Italia, nda) il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu convoca d’urgenza il consiglio di sicurezza. E annuncia: «Hamas la pagherà cara». «Provi a toccarci e aprirà le porte dell’Inferno», gli replicano da Gaza City. Intanto da tutto il mondo arriva il cordoglio per le tre vittime. L’Autorità nazionale palestinese segue a ruota Gerusalemme e si riunisce d’urgenza a Ramallah. La notte trascorre così, tra lacrime e rabbia, sgomento e paura. E razzi sparati qua e là sull’asse Israele-Gaza. Nel suo ufficio, da solo, Netanyahu ha cercato di prendere una decisione fino a notte fonda. Si saprà presto, molto presto, quale sarà.
© Leonard Berberi