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Vivere e lavorare a Hebron

Il momento in cui un soldato israeliano punta il fucile contro un giovane palestinese a Hebron (fermo immagine YouTube/Falafel Cafè)

Il momento in cui un soldato israeliano punta il fucile contro un giovane palestinese a Hebron (fermo immagine YouTube/Falafel Cafè)

«Ti ficco una pallottola in testa». Beit Hadassah, Hebron. Nel cuore tormentato della Cisgiordania, laddove palestinesi e coloni si confondono e si confrontano e spesso si picchiano, un soldato della Brigata Nahal dell’esercito israeliano ha un diverbio con un giovane musulmano.

Nulla di nuovo. Ogni giorno, a Hebron, è così. Ma questa volta – a differenza di altre – ci sono delle fotocamere che registrano tutto. E c’è un soldato, un ragazzo anche lui, che agita l’arma in modo scomposto e la punta ad altezza uomo. A un certo punto il militare si ritrova circondato. E minacciato. Più di qualche palestinese arriva al contatto fisico. Uno tiene sulla mano destra qualcosa che somiglia a un tirapugni.

Il militare ora minaccia uno dei ragazzi che sta riprendendo la scena (fermo immagine YouTube/Falafel Cafè)

Il militare ora minaccia uno dei ragazzi che sta riprendendo la scena (fermo immagine YouTube/Falafel Cafè)

Il soldato cerca di allontanarli. In pochi secondi quella situazione si può risolvere nel peggiore dei modi. O per lui. O per i musulmani. Poi il ragazzo in divisa se la prende con un altro palestinesi che sta riprendendo la scena con una videocamera. «Spegnila! Spegnila ti ho detto! O ti ficco una pallottola in testa, figlio di puttana». Poi prende la radio e chiama rinforzi. E quando questi arrivano si porta con sé uno dei palestinesi.

Il video (che trovate in fondo al post) viene caricato su YouTube da un gruppo di attivisti palestinesi. I commenti fioccano. L’Idf, l’esercito israeliano, dice la sua. E agisce. «Le nostre forze in Giudea e Samaria hanno il compito di mantenere la sicurezza in un’area complicata. Questo vuol dire che in ogni momento della giornata devono comportarsi in modo più che professionale, con determinazione e con razionalità. L’atteggiamento di quel soldato nel video è stato aberrante e su questo ci sarà un’indagine». Indagine che, per ora, ha già portato a una prima decisione: il militare sarà sollevato dall’incarico.

© Leonard Berberi

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Urla, insulti, minacce: la visita da incubo di alcuni ebrei sulla Spianata delle moschee

Le lacrime di un bambino ultraortodosso e l'aggressione verbale dei palestinesi sulla Spianata delle moschee (foto YouTube/Falafel Cafè)

Le lacrime di due bambini ultraortodossi e l’aggressione di alcuni palestinesi sulla Spianata delle moschee (fermo immagine YouTube/Falafel Cafè)

Camminano quasi in fila. Grandi e piccoli. Muovono i passi in uno spazio che è un decimo di quello calpestabile. Da un lato hanno il muro. Dall’altro centinaia di uomini e donne – soprattutto donne – che urlano. E guardano in cagnesco. E sembrano lì lì sul punto di aggredire. Fisicamente, s’intende. «Andate via! Non è il vostro posto questo! Siete degli usurpatori! Dovete morire tutti!».

Inizia così il filmato di poco meno di sei minuti (in fondo al post) caricato su YouTube. Mostra – dal punto di vista degli aggrediti – quanto andato in scena sulla Spianata delle moschee. Il cuore di Gerusalemme. Il cuore dei problemi israelo-palestinesi.

Una palestinese urla contro una parte della comitiva di ebrei che aveva deciso di visitare la Spianata delle moschee (foto YouTube/Falafel Cafè)

Una palestinese urla contro una parte della comitiva di ebrei che aveva deciso di visitare la Spianata delle moschee (fermo immagine YouTube/Falafel Cafè)

Il calendario segna mercoledì 23 aprile 2014. Un gruppo di israeliani ultraortodossi – arrivati dalla città haredim Bnei Brak, periferia di Tel Aviv, e alcuni quartieri religiosi di Gerusalemme – sta facendo il suo tour sulla Spianata delle moschee, dove si trova la cupola dorata della moschea di Al-Aqsa, luogo di preghiera per i musulmani. È una delle poche «finestre» in cui cristiani e, soprattutto, ebrei possono fare visite guidate sopra al Muro del pianto. Con tutti loro ci sono anche un paio di poliziotti, per motivi di sicurezza. Anche se, in tutti questi anni, non ce n’è quasi mai stato bisogno. Sì, certo, qualche parola grossa è volata tra palestinesi e israeliani. Ma mai quanto successo mercoledì scorso.

A un certo punto centinaia di palestinesi si radunano sulla Spianata. Formano quasi un cordone umano contro il gruppo di ultraortodossi. Partono urla. Insulti. Accenni di aggressione fisica. «Ci hanno lanciato anche una scarpa», racconta al sito di news Walla! uno dei presenti, Yisrael Fertig. L’associazione ebraica Haliba – quella che ha organizzato la gita culturale – riprende tutta la scena. E la scarpa, quella denunciata da Fertig, compare nel filmato. È al 55esimo secondo.

Nel tondo rosso la scarpa che viene lanciata - da un palestinese, secondo uno dei testimoni ultraortodossi - verso il gruppo di visitatori (fermo immagine YouTube/Falafel Cafè)

Nel tondo rosso la scarpa che viene lanciata – da un palestinese, secondo uno dei testimoni ultraortodossi – verso il gruppo di visitatori (fermo immagine YouTube/Falafel Cafè)

Intanto a dividere musulmani ed ebrei si aggiungono decide di agenti. La folla ostile aumenta di numero. A urlare e a creare tensione ora sono anche giovanissime velate e anziani signori. Qualche bambino ebreo piange. Un ultraortodosso accenna un minimo di reazione a quella cantilena d’insulti. «Allahu akbar! Allahu akbar!», urlano altri palestinesi in arabo. «Dio è grande! Dio è grande!».

Il gruppo viene poi scortato all’uscita. Con centinaia di palestinesi arrabbiati. «Ci hanno provocato. La loro sola presenza qui, nella moschea di Al-Aqsa, è una provocazione! Che vengono a fare qui?», hanno poi spiegato molti musulmani. «Ma quale provocazione: non abbiamo detto e fatto nulla di irrispettoso», hanno replicato alcuni dei visitatori aggrediti. Cosa sia successo davvero, cos’abbia scatenato quella violenza verbale forse non lo si saprà mai. Restano, quelle sì che sono una certezza, gli sguardi smarriti dei bambini. E le loro lacrime.

© Leonard Berberi

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Quella “grosse koalition” palestinese che sta uccidendo i negoziati con gli israeliani

Il mediatore palestinese Saeb Erekat, il segretario di Stati Usa John Kerry e il mediatore israeliano Tzipi Livni (foto Afp)

Il mediatore palestinese Saeb Erekat, il segretario di Stati Usa John Kerry e il mediatore israeliano Tzipi Livni (foto Afp)

Alzi la mano chi, a questo punto, ha capito qualcosa. Alzi la mano chi, sempre a questo punto, sa come andranno le cose. A.A.A. analisti di diplomazia internazionale cercasi. Possibilmente che ragionino fuori dagli schemi. Perché qui, gli schemi, sono saltati tutti. Un po’ come all’ottantesimo di una sfida di calcio. O meglio: di una finale di Champions League dove entrambe le formazioni sono sullo zero a zero. Dove i giocatori vanno dove li portano le gambe e il cuore, non più la testa, non più il capitano e l’allenatore. E con un arbitro che non sa più come contenere il nervosismo in campo ed evitare fallacci da cartellino rosso.

Il fatto è che si fa fatica, a questo punto – che è lo stesso punto di tutti i precedenti colloqui di pace naufragati – ecco, si fa fatica a trovare un senso al pasticciaccio mediorientale. Soprattutto se le notizie sono così contraddittorie da risultare, in alcuni casi, pura fantasia se sentiti, letti e pronunciati soltanto una settimana fa. Proviamo allora a fare una sintesi. Una sintesi per difetto. Ché ormai informazioni vere, analisi presunte, voci fasulle e testimonianze contraffatte stanno finendo tutte in un frullatore e quel che ne uscirà non lo sa nessuno. E, paradossalmente, l’unica cosa sicura è che qualcosa – al nord, al confine tra Israele e Libano – sta succedendo. Perché da alcune ore le due parti non nascondono un po’ di nervosismo.

Da sinistra: il premier israeliano Benjamin Netanyahu, l'ex segretario di Stato Usa Hillary Clinton e il presidente palestinese Mahmoud Abbas si stringono la mano in occasione dell'ennesimo tentativo di riavviare i colloqui di pace: è il settembre 2010 (foto Moshe Milner/GPO/Flash90)

Da sinistra: il premier israeliano Benjamin Netanyahu, l’ex segretario di Stato Usa Hillary Clinton e il presidente palestinese Mahmoud Abbas si stringono la mano in occasione dell’ennesimo tentativo di riavviare i colloqui di pace: è il settembre 2010 (foto Moshe Milner/GPO/Flash90)

E allora. Questa settimana Fatah – la fazione palestinese «moderata» che ha la maggioranza in Cisgiordania – ha annunciato uno «storico» accordo di riconciliazione con i fratelli-coltelli di Hamas, il blocco «oltranzista» che ha la maggioranza nella Striscia di Gaza. Accordo che prevede un nuovo governo palestinese entro cinque settimane. Elezioni come non se ne organizzano da qualche anno entro sei mesi dalla formazione del nuovo esecutivo. Insomma, una «grosse koalition» in salsa palestinese con, come ciliegina sulla torta, una tornata elettorale «libera e democratica».

Un accordo, quello tra Fatah e Hamas, che arriva dopo centinaia di morti tra le due fazioni, scontri armati senza sosta, condanne a morte di presunte spie del blocco avversario, divieti d’ingresso di esponenti politici opposti, giornali concorrenti vietati e accuse reciproche di far di tutto per danneggiare la causa palestinese. Un accordo, quello tra Fatah e Hamas, che ha sorpreso gli altri due protagonisti di questo triangolo politico: Israele e Usa.

E sono, loro malgrado, protagonisti di questa pacificazione anche lo Stato ebraico e Washington. Perché uno dei tre attori dei colloqui di pace tra israeliani e palestinesi – con la mediazione dell’amministrazione Obama – è Mahmoud Abbas. È il presidente palestinese. Ma è anche il numero uno, di fatto, di Fatah. Fatah che, appunto, questa settimana si è riunita con Hamas. Peccato che Hamas sia considerata dal governo israeliano di Benjamin Netanyahu un’organizzazione terroristica. E venerdì, rivolgendosi al Paese, Netanyahu ha messo da parte la diplomazia. «Israele non tratta con i terroristi», ha spiegato il premier. Quindi ora nemmeno più con la metà «buona». Risultato: stop ai negoziati. Se ne riparlerà quando la situazione si sarà chiarita. Sempre se ciò avverrà.

Il presidente statunitense Barack Obama alla fine di una conferenza stampa dalla Casa Bianca lo scorso marzo (foto di Yuri Gripas/Afp/Getty Images)

Il presidente statunitense Barack Obama alla fine di una conferenza stampa dalla Casa Bianca lo scorso marzo (foto di Yuri Gripas/Afp/Getty Images)

Che la riunificazione non piaccia a molti lo dimostrano anche le parole di Barack Obama. Il presidente americano, come non capitava da anni, ha pronunciato parole in sintonia con il pensiero di Netanyahu. «Forse è venuto il momento che i negoziati si prendano una pausa», ha detto Obama. «Credo che a questo punto entrambe le parti debbano riflettere e vedere altre alternative», ha spiegato a Seul, in Corea del Sud, durante il suo tour asiatico.

«Il fatto che il presidente Abbas abbia deciso di riappacificarsi con Hamas non aiuta – ha continuato il leader democratico –. Ma questa è soltanto una delle tante scelte fatte da palestinesi e israeliani e che non servono per nulla a risolvere la crisi». Insomma, la colpa, secondo gli americani, è di entrambi. Da una parte hanno chiuso più di un occhio sulle nuove costruzioni negli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Dall’altra hanno alzato troppo la posta in gioco e fatto scelte discutibili. «Ma questo non vuol dire che ci arrendiamo: i colloqui restano sul tavolo e noi stiamo lavorando per arrivare alla pace finale», si sono affrettati a chiarire dal Dipartimento di Stato.

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il leader di Hamas Khaled Mashaal al Cairo, in Egitto, dopo un vertice nel febbraio 2012 (foto Amr Nabil/Ap)

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il leader di Hamas Khaled Mashaal al Cairo, in Egitto, dopo un vertice nel febbraio 2012 (foto Amr Nabil/Ap)

Poi da Ramallah hanno chiamato il segretario di Stato Usa, John Kerry, il «regista» degli incontri mediorientali. «Il nuovo governo di unità nazionale formato da Fatah e Hamas riconoscerà lo Stato d’Israele, glielo prometto», ha detto una voce autorevole dalla Cisgiordania. Quella voce era di Mahmoud Abbas, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese. La stessa voce che, qualche settimana fa, ha tuonato: «Non riconoscerò mai Israele come Stato ebraico».

Il punto è proprio questo: Netanyahu dice che i colloqui non vanno avanti se i palestinesi non riconoscono lo Stato ebraico d’Israele. Abbas dice che riconoscerà lo Stato d’Israele, ma non quello ebraico. Mentre Hamas sostiene da sempre che non riconoscerà proprio lo Stato d’Israele. Di più: a Gaza promettono da anni di ridurre in cenere Tel Aviv.

Sullo sfondo resta la questione economica. Con il nuovo accordo Gerusalemme difficilmente girerà centinaia di milioni di euro ai palestinesi così come previsti dagli accordi fiscali tra le due parti. Il motivo? Sono soldi che andrebbero anche ad Hamas. Così come l’Europa forse avrà più di un imbarazzo a continuare con i fondi comunitari per l’Autorità nazionale palestinese. Anche se ora gl’israeliani, dopo un attimo di sorpresa, ne sono sempre più convinti: l’accordo Fatah-Hamas non durerà.

© Leonard Berberi

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