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Nascite, matrimoni e funerali: ecco gli hassidici d’Israele

Pidyon Haben (riscatto del figlio primogenito) di una delle famiglie hassidiche, 2013 (foto di Pavel Wolberg)

Pidyon Haben (“Riscatto del figlio primogenito”) di una delle famiglie hassidiche, 2013 (foto di Pavel Wolberg)

«La verità è che non sai mai quando puoi farle le foto. Se a loro va tu riesci a portare a casa qualche scatto. Se a loro non va, ti prendono a calci, fino a cacciarti dal posto che ti interessava immortalare». Pavel Wolberg è un fotografo particolare: non segue molto le frizioni israelo-palestinesi. Gli interessa infilarsi nei posti meno accessibili dello Stato ebraico: la comunità hassidica.

Funerale nel quartiere ultraortodosso di Mea Shearim, Gerusalemme, 2011 (foto di Pavel Wolberg)

Funerale nel quartiere ultraortodosso di Mea Shearim, Gerusalemme, 2011 (foto di Pavel Wolberg)

Nato nella russa Leningrado (oggi San Pietroburgo) nel 1966, Wolberg vive e lavora a Tel Aviv. Ha iniziato a fare il freelance nel 1999. E da allora, a due passi da casa sua – nel quartiere-città di Bnei Brak – ha iniziato i suoi primi scatti all’interno degli ebrei ultraortodossi. Da lì si è poi spostato nel più famoso Mea Shearim, a Gerusalemme.

Matrimonio a Bnei Brak, vicino Tel Aviv (foto di Pavel Wolberg)

Matrimonio a Bnei Brak, vicino Tel Aviv (foto di Pavel Wolberg)

Circoncisioni, matrimoni, ricorrenze religiose, funerali. Ogni momento della vita degli ultrareligiosi è finito nelle pellicole di Wolberg. Una passione iniziata proprio quando, per caso, s’è ritrovato nel bel mezzo della cerimonia nuziale. E da quel momento il fotografo ha deciso che non si sarebbe perso nessun evento.

La celebrazione di Purim a Mea Shearim (foto di Pavel Wolberg)

La celebrazione di Purim a Mea Shearim (foto di Pavel Wolberg)

«Ho iniziato a interessarmi di questo mondo perché è così diverso dal mio, anche se è a cinque minuti da casa», spiega Wolberg. «È una comunità che io vedo tutti i giorni». Una comunità che non sempre si fa fotografare. Per non parlare del fatto che i loro eventi sono sempre molto affollati. E così bisogna diventare anche abili a trovare il posto migliore.

La folla a un matrimonio a Netanya, 2013 (foto di Pavel Wolberg)

La folla a un matrimonio a Netanya, 2013 (foto di Pavel Wolberg)

A Wolberg piace molto il Purim, l’evento nel quale soprattutto i piccoli vanno in giro con delle maschere. «Mi piace fotografare gli hassidici durante Purim perché sono quasi sempre ubriachi – continua –. Puoi andare a casa loro, mangiare con loro, passare il tempo e chiacchierare. È tutta gente molto alla mano».

I piccoli hassidici in maschera per le vie di Mea Shearim, 2010 (foto di Pavel Wolberg)

I piccoli hassidici in maschera per le vie di Mea Shearim, 2010 (foto di Pavel Wolberg)

La verità è che tra gli hassidici il tempo s’è fermato al 18° secolo, cioè il periodo in cui è nata questa corrente dell’Ebraismo. I vestiti sono gli stessi. La filosofia di vita pure. «Vivono e si muovono in modo diverso dal resto degl’israeliani», spiega Wolberg. Ed è anche per questo che decine dei suoi scatti compongono la collezione «Un mondo a parte: le foto sulla comunità hassidica in Israele».

© Leonard Berberi

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attualità

I proiettili, i video, le smentite: il giallo sulla morte di due adolescenti palestinesi

Nadim Siam Nuwara e Muhammad Mahmoud Salameh, entrambi 17enni, morti lo scorso 15 maggio in Cisgiordania (frame da Cnn)

Nadim Siam Nuwara e Muhammad Mahmoud Salameh morti lo scorso 15 maggio in Cisgiordania (frame da Cnn)

«Eccolo qui il proiettile che ha ucciso mio figlio: l’ho trovato incastrato nello zaino che aveva in spalla». Una settimana e due morti dopo resta ancora tanto da chiarire su cosa sia successo nel villaggio palestinese di Beitunia il 15 maggio scorso. Quando, durante le proteste che hanno accompagnato la celebrazione del Nakba Day due adolescenti, Nadim Siam Nuwara, 17 anni, e Muhammad Mahmoud Salameh, 16, sono stati colpiti da colpi di fucile sparati – accusano in molti – dai soldati israeliani.

I filmati (sotto), pubblicati dall’associazione «Defense for children International – Palestine» e da “B’Tselem”, sembrano dare ragione a questa ricostruzione. Da due telecamera a circuito chiuso, installate in un distributore di benzina, si vede questo gruppo di giovani palestinesi che lancia pietre verso qualcosa fuori visuale. Poi a un certo punto uno degli adolescenti cade a terra. È Nadim. Sono le 13.45 e 51 secondi. In molti accorrono verso di lui. Se lo portano via. Nulla da fare. Morirà pochi minuti dopo. Il proiettile gli ha trapassato la schiena.

Poco più di un’ora dopo il copione si ripete (nel filmato sotto): stesso luogo, stessa dinamica. Sono le 14.58 e 51 secondi. Un colpo e il ragazzo palestinese cade a terra. Si tratta di Muhammad. E ancora coetanei che cercano di salvarlo. E però il risultato è lo stesso: muore anche lui.

L’esercito dello Stato ebraico smentisce questa versione. Peter Lerner, portavoce dell’Idf, da giorni ripete che «i nostri soldati hanno sparato soltanto proiettili di gomma, perché erano gli unici messi a loro disposizione». Mentre l’organizzazione israeliana che si batte per la difesa dei diritti umani, B’Tselem, ha fornito un documento in cui, «secondo i medici interpellati da noi», i due ragazzini uccisi – oltre ad altri due feriti – «sono stati colpiti da proiettili veri, non di gomma».

Il momento in cui uno dei soldati israeliani spara contro il gruppo di manifestanti palestinesi (frame da Cnn)

Il momento in cui uno dei soldati israeliani spara contro il gruppo di manifestanti palestinesi (frame da Cnn)

A riaccendere le polemiche è arrivata la Cnn: un operatore della tv all news americana si trovava proprio lì, quel giorno. E ha filmato il gruppo di soldati israeliani che dall’alto guarda la situazione. Nel servizio trasmesso si vede uno dei militari prendere la mira e sparare. «Questo è il proiettile con cui gl’israeliani hanno ucciso mio figlio», dice all’inviato dell’emittente Siam Nuwara, il padre di Nadim. Mostra un piccolo pezzo di metallo avvolto in un sacchetto di plastica. Poi mostra il libro dentro lo zaino con tracce del sangue del figlio.

© Leonard Berberi

CORREZIONE: Nella prima versione del post è stato scritto che Muhammad Mahmoud Salameh aveva 17 anni. In realtà il giovane di anni ne aveva 16, com’è stato poi comunicato ufficialmente dalle autorità palestinesi

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Dodici autori, quattro anni, 500 scatti: dentro il cuore di Israele e Palestina

"La famiglia Weinfeld, Gerusalemme 2009" (foto Frédéric Brenner / Howard Greenberg Gallery)

“La famiglia Weinfeld, Gerusalemme 2009” (foto Frédéric Brenner / Howard Greenberg Gallery)

Uno, nessuno, centomila. La Tel Aviv avanti mille anni luce. La Gerusalemme così aggrappata alle tradizioni. La Cisgiordania così sofferta. E ancora: la famiglia Aslan Levi: lui, lei e i tre figli. I protagonisti quasi da pubblicità che trascorrono la giornata alla Snir Stream Laguna, Alta Galilea. I ragazzini palestinesi che si rinfrescano con un getto d’acqua a Silwan, a Gerusalemme Est. I coloni dell’insediamento di Tekoa, a due passi da Gush Etzion. Lo sguardo perplesso della soldatessa Elior Brenner. La casa – d’altri tempi – dei Weinfeld, mamma, papà e i nove figli seduti al tavolone a Gerusalemme.

"La famiglia Aslan-Levi, 2010" (foto di Frédéric Brenner/Howard Greenberg Gallery)

“La famiglia Aslan-Levi, 2010” (foto di Frédéric Brenner/Howard Greenberg Gallery)

Ci sono voluti dodici fotografi – tutti di fama mondiale – per tentare di sintetizzare i mille volti di Israele e Palestina. Quattro anni di lavoro, migliaia di scatti e alla fine ecco le 500 immagini che, ad oggi, rappresentano il più grande progetto fotografico sull’area che tra pochi mesi sbarca in Europa, si trasferisce nello Stato ebraico e poi, nel 2015, chiude il viaggio negli Stati Uniti.

Ragazzini palestinesi si rinfrescano nel villaggio di Silwan, a Gerusalemme Est (foto di Gilles Peress)

Ragazzini palestinesi si rinfrescano nel villaggio di Silwan, a Gerusalemme Est (foto di Gilles Peress)

Il lavoro si chiama «This Place», questo posto. A dirigere il gruppo di lavoro è stato Frédéric Brenner, 55 anni, ebreo francese, diventato famoso per «Diaspora», la ricerca lunga un quarto di secolo e grande 40 Paesi dove l’artista ha documentato la vita e la situazione degli ebrei alla fine del XX secolo. E così, dopo aver viaggiato nel mondo, s’è concentrato dal 2006 in poi nel cuore del Medio Oriente. Prima ha raccolto 4 milioni di dollari di donazioni. Quindi ha chiamato altri undici fotografi. «Non professionisti qualunque – spiega Brenner –, ma veri e propri artisti, autori che fanno domande, si informano, cercano di entrare nel cuore dell’area che vogliono immortalare».

"Snir Stream Laguna 2010" (foto Frédéric Brenner/Howard Greenberg Gallery)

“Snir Stream Laguna 2010” (foto Frédéric Brenner/Howard Greenberg Gallery)

Ogni fotografo ha passato sei mesi in Israele tra il 2009 e il 2012. Un tempo nel quale non solo sono andati in giro a realizzare scatti, ma anche a pranzare e cenare con la gente del posto, a parlare con loro, a discutere con gli intellettuali e gli artisti, gli esperti e gli storici. Ogni artista, poi, è stato seguito giorno per giorno da uno studente israeliano del Bezalel academy of arts and design di Gerusalemme e ha pernottato a Mishkenot Sha’ananim, uno dei centri nevralgici della cultura gerosolimitana.

"Famiglia di coloni", insediamento di Tekoa, Gush Etzion, Cisgiordania (foto di Nick Waplington)

“Famiglia di coloni”, insediamento di Tekoa, Gush Etzion, Cisgiordania (foto di Nick Waplington)

«C’è di tutto nelle istantanee – continua Brenner – da quelle di gruppo ai ritratti. Sono immortalati palestinesi e israeliani, coloni ed ebrei secolarizzati, migranti e gente che vive qui da generazioni». Tra le persone fotografate c’è anche Elior Brenner, la figlia del capo-progetto (sotto), immortalata mentre fa una faccia un po’ così alla macchina fotografica del papà. Tutte foto che cercano di dare una descrizione alla zona. Perché, spiega Brenner, l’area «presenta davvero tante chiavi di lettura, tanti modi di interpretarla».

© Leonard Berberi

Elior Brenner, 2009 (foto Frédéric Brenner / Howard Greenberg Gallery)

Elior Brenner, 2009 (foto Frédéric Brenner / Howard Greenberg Gallery)

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