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LA STORIA / Guy Hever, il soldato ventenne sparito nel nulla nelle Alture del Golan

Che fine ha fatto Guy Hever? È ancora vivo il sergente dell’esercito israeliano numero 5210447? È fuggito? È stato ucciso? È prigioniero di qualche fazione palestinese? È stato torturato dai siriani? Le domande sono le stesse da quindici anni. Per la precisione: dal 17 agosto 1997. Giorno in cui questo ragazzo di 20 anni, israeliano e con indosso la divisa dell’esercito dello Stato ebraico, ha fatto perdere le sue tracce in una base sperduta nelle Alture del Golan, a un chilometro dal confine con la Siria.

L’unica sua “impronta”, lasciata lì, in mezzo a quel pezzo di terra che strizza l’occhio al deserto, ecco, l’unica “impronta” è un libro «Il viaggio nel tempo». Perché, per il resto, Guy Hever s’è portato con sé, nel buco nero dov’è finito dal torrido agosto di tre lustri fa, pure il fucile d’ordinanza. «È uno dei misteri più sconcertanti», ricorda The Times of Israel.

C’è una madre che aspetta questo ragazzo con gli occhiali e lo sguardo innocente. Si chiama Rina Hever. Non smette di lasciare le sue foto in giro per Israele. Istantanee di un adolescente. Un adolescente che oggi avrebbe 35 anni. «Questo è peggio del lutto stesso», dice Rina. «Non sapere nulla sul proprio figlio, nemmeno se sia vivo o meno».

Guy Hever (nel tondo) insieme ai suoi compagni nella base sulle Alture del Golan pochi giorni prima di sparire nel nulla

C’è un dolore particolare in questa madre. «Il 16 agosto, il giorno prima, io e mio marito Eitan eravamo stati con lui alla base», ricorda. «Il 17 sarebbe dovuto tornare a casa, ma è scomparso qualche ora prima, con il suo fucile in dotazione, le piastrine identificative e un documento internazionale con il certificato della Convenzione di Ginevra».

I giorni successivi Rina un po’ di fiducia ce l’aveva. Israele è un Paese piccolo e unito – ne era convinta – la gente non sparisce per troppo tempo. E invece. Passano i giorni. E le settimane. E i mesi. E gli anni. Ma di Guy non c’è traccia. Una delle piste parla di allontanamento volontario. Poi si fa largo l’ipotesi del suicidio o della morte per incidente e il corpo forse in qualche anfratto del Golan, o forse nascosto dalle erbacce, oppure precipitato in qualche burrone o dilaniato dalle mine disseminate lungo questo confine insidioso.

E allora iniziano le ricerche. Soldati, poliziotti, uomini della Scientifica, volontari, cani. Hanno usato pure aerei e robot mandati a scandagliare i campi minati. Nulla. Nemmeno il suo fucile è stato trovato. Così, negli ultimi anni, è rimasta in piedi l’unica ipotesi plausibile agli occhi dei genitori del soldatino: il rapimento per mano siriana. Anche se due persone della comunità drusa – una psichiatra e un cacciatore – hanno raccontato di aver visto quel giorno, il 17 agosto 1997, un soldato israeliano camminare solo e un po’ smarrito verso il confine siriano.

«È vivo, me lo sento», confida la madre. E non c’è solo il sentimento a cui ci si aggrappa fino in fondo, fino a quando non ci s’imbatte nel corpo esanime della persona amata. C’è anche la speranza che Guy percorra la stessa strada di Massaf Abu Toameh, un arabo-israeliano che nel 1988 era andato in vacanza in Grecia e poi era sparito. Tredici anni dopo, nel 2001, s’è fatto vivo, dopo essere stato tenuto prigioniero in Siria. «Dopo tutto questo tempo mio fratello è tornato a casa, malato e giù di morale, ma è tornato», ha scritto il fratello, Khaled Abu Toameh, giornalista del Jerusalem Post. «E la cosa più choccante è che tutto questo è successo sotto il mio naso, dietro al cortile di casa».

Guy Hever, da piccolo, insieme alla madre Rina

Nel febbraio del 1997 una sedicente sigla terroristica, i Comitati di resistenza per la liberazione delle Alture del Golan, annunciano sul web la loro disponibilità «a rilasciare un soldato israeliano catturato nel Golan» in cambio della scarcerazione dei prigionieri drusi detenuti nelle galere dello Stato ebraico. Ma dopo quell’annuncio non è mai successo nulla.

Pochi mesi dopo, Marion Keunecke, residente a Berlino e studiosa del Giudaismo per vent’anni in Israele, scuote la famiglia Hever. E l’esercito. Racconta del suo viaggio ad Aleppo, in Siria. Spiega di essere stata fermata e interrogate dai servizi segreti locali e poi cacciata dal Paese. Ma ricorda anche che tra quelli che l’interrogavano «c’era questo ragazzo che mi faceva domande in un ebraico perfetto». Pelle olivastra, faccia smagrita. Era Guy? Guy, il ragazzo ventenne sparito dal Golan, era passato a lavorare per i siriani? «Con una certezza del 90% ho conosciuto vostro figlio, il soldato Guy Hever, durante un interrogatorio il 3 maggio 2005, verso le 22 a Damasco, in Siria», scrive la donna ai genitori del giovane.

La tedesca dice il vero? «Di certo non mentiva», risponde Dan Hadany, ex militare delle forze aeree e ora ingaggiato dagli Hever a trovare il figlio. «Sappiamo come si comportavano in quegli anni i siriani e sono certo che Guy sia loro prigioniero».

Ora in Siria il regime è sul punto del collasso. Aleppo è dilaniata dalle bombe. Damasco pure. Di Guy continua a non esserci traccia. «Ma io l’aspetto qui, il mio ragazzo», dice la madre. «Lo so che è vivo, lo so che ritornerà a casa sano e salvo». E mentre lo dice tutt’intorno risaltano i disegni del figlio scomparso, fatti sin da quand’era piccolo.

© Leonard Berberi

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“Netanyahu vuole attaccare l’Iran prima di novembre”. Ma nel partito del premier resiste il fronte del “no” alla guerra

«Ma quale primavera! Il governo israeliano vuole attaccare l’Iran prima delle elezioni americane!». Lunedì sera l’emittente tv israeliana Channel 10 ha mandato in fibrillazione un bel po’ di cancellerie. Abituate, ormai, all’idea che no, una guerra contro Teheran non ci sarà fino a febbraio-marzo 2013.

È bastato vedere in primo piano la faccia di Alon Ben-David, giornalista esperto di cose militari, per aspettarsi tutto tranne che notizie buone. E infatti. «Il primo ministro Benjamin Netanyahu è intenzionato ad attaccare l’Iran prima delle elezioni statunitensi del 6 novembre», ha detto Ben-David. E ha aggiunto, nel caso non fosse chiaro: «Mai prima d’ora Israele è stata così vicino alla guerra ai programmi nucleari della Repubblica islamica».

Come ricorda il quotidiano elettronico Times of Israel, «Ben-David è stato l’unico autorizzato a curiosare nelle forze aeree israeliane per vedere come ci si sta preparando all’attacco militare». E Ben-David non ha tradito le attese. «Dal punto di vista di Netanyahu le sanzioni non hanno funzionato e ogni giorno che passa avvicina l’ora X», ha detto durante l’edizione principale del tg.

Quanto all’incontro con il presidente Usa previsto a settembre, in occasione dell’Assemblea generale dell’Onu, Ben-David ha gelato tutti: «Non si sa nemmeno se ci sarà l’incontro», ha rivelato. E anche se un faccia a faccia ci sarà, continua l’analista, «dubito Obama sarà in grado di convincere Netanyahu a far ritardare l’attacco».

L’analista militare Alon Ben-David lunedì sera durante il tg di Channel 10

La guerra si avvicina. La guerra si allontana. L’elastico nucleare, in salsa mediorientale, continua ormai da settimane. Tanto che, secondo molti, i toni non sono più quelli di un conflitto, «ma di una telenovela». Telenovela che, però, a qualcuno non dispiace. «Più Netanyahu minaccia di attaccare l’Iran più in realtà questa guerra resta solo un’idea», spiega a Falafel Cafè un parlamentare del Likud, il partito del premier. «All’interno della nostra formazione non tutti seguono il ragionamento di Bibi: più di qualcuno – me compreso – non vuole avere sulla coscienza migliaia di vittime civili qui, nello Stato ebraico, e anche là, nella Repubblica islamica».

Il timore è anche un altro. «Bibi (Netanyahu, nda) mese dopo mese ha perso l’appoggio di molti Stati nostri alleati fino a qualche anno fa», continua il parlamentare del Likud. «Abbiamo perso la Turchia, abbiamo perso l’Egitto, la Giordania inizia ad avere problemi di stabilità e l’Arabia Saudita ci ha praticamente chiuso i corridoi aerei e navali». Quindi lo scenario successivo all’eventuale attacco all’Iran: «Basta una sola bomba su Teheran per incendiare tutto il Medio Oriente. Ci troveremmo a dover gestire più conflitti contemporaneamente e non ne siamo ancora in grado, checché ne dica Bibi». Poi, chiude il ragionamento, «ci sarebbe la questione – non meno importante – dei costi da sostenere per il conflitto su larga scala».

Già, i costi. Secondo l’analisi del gruppo di ricerca BDI-Coface la guerra potrebbe costare all’economia israeliana addirittura 167 miliardi di shekel, 42 miliardi di dollari. Ci sarebbero danni economici «diretti» (47 miliardi di shekel, pari al 5,4% del Pil del 2011). E danni «indiretti»: 24 miliardi di shekel all’anno, in un periodo previsto di recessione che va dai tre ai cinque anni. Per fare un confronto: la guerra in Libano nel 2006, durata 32 giorni, fece ridurre la crescita economica dello 0,5%. A cui si aggiunse un altro 1,3% del Pil utilizzato per ricostruire le infrastrutture danneggiate da Hezbollah. Ma nella guerra contro il Paese dei Cedri fu coinvolta soltanto la parte settentrionale, dove si produce il 20% della ricchezza nazionale. «In caso di attacco all’Iran – precisa lo studio – sarebbe coinvolta la parte d’Israele che realizza il 70% del Pil annuale».

© Leonard Berberi

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Usa-Israele, ecco i quattro punti dell’accordo per spostare la guerra all’Iran in primavera

«Ora il lavoro più difficile sarà convincere i nostri». Gli uomini più vicini al premier israeliano Benjamin Netanyahu non nascondono un certo entusiasmo. In poche ore, da quando il 15 agosto è arrivata la prima, allarmata, telefonata dalla Casa Bianca, di cose ne sono cambiate. A partire da quella, più fondamentale: gli Usa promettono di appoggiare, logisticamente e militarmente, lo Stato ebraico nelle varie fasi di attacco all’Iran. In cambio, però, Israele deve far slittare di qualche mese la sua guerra ad Ahmadinejad. Fino alla primavera 2013. Da quel momento Gerusalemme può far partire i suoi razzi.

LA STRATEGIA AMERICANA – Nello Studio Ovale, tra il 13 e il 14 agosto, avrebbero deciso di darsi una mossa sul fronte mediorientale. Soprattutto ora che i sondaggi danno, alle elezioni presidenziali del 6 novembre prossimo, in netto vantaggio il capo dello Stato uscente, Barack Obama. Da Gerusalemme, il 13 agosto – racconta una fonte – gli uomini di «Bibi» avrebbero fatto chiaramente intendere a Washington di essere più che determinati ad annichilire il programma nucleare iraniano «con ogni mezzo possibile» e, soprattutto, «già quest’autunno».

Tom Donilon, Barack Obama e Hillary Clinton

I PREPARATIVI – A confermare i preparativi tattici a Obama sarebbe stato lo stesso Tom Donilon, consigliere americano per la Sicurezza nazionale. Donilon ha passato le ultime settimane a tentare di smussare le posizioni interventiste degl’israeliani. Il timore, a Washington, è che una guerra prima delle elezioni di novembre non farebbe altro che far schizzare il prezzo del greggio, sconquassando più di un’economica. E, quindi, costando a Obama la rielezione.

L’INTESA – Per questo, il giorno successivo – e siamo al 14 agosto – la decisione americana: raggiungere un vero e proprio accordo con gl’israeliani sulla «grana» Teheran. A Ferragosto i primi colloqui approfonditi. Due giorni dopo la bozza d’intesa.

L’accordo – non senza una contropartita radicale per Gerusalemme, a dire il vero – dovrebbe ora essere perfezionato dai vertici delle due diplomazie sul dossier iraniano: Tom Donilon, per la parte americana, Ron Dermer, consigliere del primo ministro Netanyahu, per quella israeliana. Un accordo che prevede quattro punti. Uno più determinante dell’altro. E che sarà ulteriormente approfondito il 18 settembre, durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, tra Obama e Netanyahu.

I QUATTRO PUNTI – Da Gerusalemme rivelano che le due amministrazioni si sarebbero messe d’accordo su «almeno quattro punti», «imposti peraltro dallo Stato ebraico». Il primo, rivela la fonte, «prevede che il presidente americano vada a dire ai due rami del Parlamento Usa, e metta anche per iscritto, che il suo Paese prevede di usare l’esercito per prevenire che l’Iran si doti dell’arma nucleare». In questo modo, secondo Gerusalemme, «Obama, una volta ottenuto l’ok, avrà mani libere per far intervenire gli Stati Uniti quando vuole».

Il presidente Usa insieme al premier israeliano Benjamin Netanyahu nello Studio Ovale della Casa Bianca

Il secondo punto parla di una visita ufficiale di Obama a Gerusalemme «nelle settimane precedenti le elezioni americane» e in cui sostiene, alla Knesset, «che gli Usa forniranno tutto l’aiuto possibile per frenare il programma nucleare di Teheran». Al punto numero tre del possibile accordo, gli Stati Uniti si impegnano ad «aggiornare fino a primavera l’infrastruttura militare e tecnologica dell’esercito israeliano». In questo modo, fanno sapere da Gerusalemme, a gennaio, quando si insedierà il nuovo presidente americano, che sia Obama o Romney, «la nostra rete militare sarà sofisticata abbastanza da reggere anche un attacco in solitaria».

L’ultimo punto, invece, riguarda direttamente la tornata elettorale del 6 novembre negli Usa: l’amministrazione Netanyahu s’impegnerebbe ad attuare una sorta di moral suasion «cercando di convincere gli ebrei d’America a votare di nuovo per Obama, anche se molti di loro sono delusi per questi quattro anni di presidenza».

Resta da capire – nell’orgia di voci, indiscrezioni e racconti dettagliati che piovono da Gerusalemme e Tel Aviv – ecco, resta da capire, cosa ci sia di vero e cosa no. Negli ultimi mesi si è detto tutto e il suo contrario, in un’escalation che più che chiarire le cose le offusca ogni giorno di più.

© Leonard Berberi

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