attualità

Sette anni dopo

L’aereo si trova sopra il nord del Canada. Mi sta portando in California per un po’ di ferie. Ed è lì, in mezzo alle mail che mi sono inviato con i link agli articoli da leggere, che inizio a pensare a Falafel Cafè. Ai suoi sette anni, il 12 novembre scorso. Agli esordi durante il master in Giornalismo. Ai post (1.219, escluso questo). Ai commenti (tanti). A chi ha deciso di «abbonarsi», iscrivendosi al blog. Ai temi, che in questo Paese sono sempre oggetto di divisione e mai di confronto civile. Alla mia passione per il Medio Oriente. Ma anche a quanto, nel frattempo, siano cambiate le mie giornate e i miei impegni. E a quanto, soprattutto quest’anno, sia diminuito il tempo dedicato a questo spazio.

Non potrebbe essere altrimenti. A differenza del 2009 oggi ho un lavoro. Metto piede in una redazione. Di fatto vivo con dei colleghi di cui alcuni sono diventati amici. Seguo fino a notte fonda un settore – quello dell’aviazione commerciale – che mi diverte molto. Anche a costo di risultare monotematico e noioso persino in vacanza (vero F.?).

Ma quattro post – escluso questo – da gennaio 2016 ad oggi non possono essere la media di un blog per come lo intendo io. Chi si «abbona» merita di ricevere almeno due volte alla settimana un mail di notifica su un nuovo contenuto. Sia esso solo testo, solo foto, solo video o tutte e tre assieme. Per questo, dopo sette anni esatti, Falafel Cafè chiude qui. Lo spazio resterà attivo (finché WordPress non deciderà di eliminarlo, ovvio). Un po’ perché voglio che sia un mini-archivio digitale su un pezzo di Medio Oriente. Un po’ perché è una porzione della mia vita, personale e professionale. Un po’ perché sarebbe divertente, spero presto, poter riprendere decine di questi post, rileggerli e farsi un sorriso mentre a tre ore e mezza di volo israeliani e palestinesi si stringono mani, si fanno i selfie, vanno in vacanza insieme, si prendono in giro sui social. Come fossero amici. Come fossero fratelli.

Leo

Standard
attualità

Il terrorismo e l’informazione in Israele ai tempi del «gag order»

terrorista-palestinese

Il terrorista palestinese con il volto camuffato perché – per le regole israeliane – non si può pubblicare per almeno 30 giorni (foto da Facebook)

C’è lui, l’aggressore, che arriva dalla Cisgiordania. Ci sono loro, le vittime (tra morti e feriti), israeliane. C’è la dinamica. Ci sono i fermi. L’inchiesta. Il solito codazzo di polemiche, politiche e militari. Poi c’è l’informazione. Che quando ha il marchio di cronisti come quelli di Haaretz e Yedioth Ahronoth, Maariv e Jerusalem Post, Canale 2 e Canale 10, ecco ha una qualità e un’attendibilità che molti – in Europa – si sognano. Soprattutto quando c’è un ordine della magistratura che invita sì a raccontare il fatto, ma senza rivelare troppi dettagli, senza aggiornare sulle indagini, senza fare vedere foto di volti. Soprattutto: senza rendere pubblici i nomi e cognomi. Dei carnefici e delle vittime.

È successo anche domenica 9 ottobre 2016. Il periodo dell’informazione istantanea e dei social network. Un palestinese ha attaccato diverse persone lungo il percorso del tram a Gerusalemme. Due israeliani hanno perso la vita. Altri cinque sono ricoverati in ospedale. L’aggressore è stato poi ucciso dalla polizia. Hamas si è congratulata: «È la reazione naturale ai crimini perpetrati da Israele», ha detto un suo portavoce.

In parallelo la polizia israeliana ha inviato un messaggio ai media: «Tutti i dettagli dell’inchiesta in corso, i nomi dei feriti, dei morti e del terrorista sono sotto un gag order», cioè un obbligo di non pubblicazione. Piccolo particolare: nel frattempo i giornalisti israeliani e stranieri avevano già raccontato la storia. Avevano scritto nomi e cognomi. La notizia aveva preso il sopravvento su Facebook e Twitter. «Più di un giorno dopo il nome del palestinese 39enne che si è messo a sparare alle 10 di domenica mattina non si può scrivere», commenta Judah Ari Gross su Times of Israel evidenziando la contraddizione nell’applicare le vecchie regole al nuovo mondo dell’informazione.

Ari Gross ricostruisce anche le fasi del «gag order». Alle 11.15, un’ora e un quarto dopo l’attacco, la polizia chiede e ottiene da un giudice di Gerusalemme il via libera a imporre il divieto di non pubblicazione. «Chi viola la decisione sarà denunciato», è la minaccia. «Ma tre ore dopo gli stessi poliziotti pubblicano il nome dell’agente ucciso, Yosef Kirma, due sue foto e le informazioni relative alla vittima sia via mail che sull’account Twitter», scrive Ari Gross. «Poco dopo succede lo stesso con la seconda vittima, Levana Malihi, 60 anni».

Non bastasse è lo stesso ufficio del ministero della Difesa a mettere, su Twitter, la foto del terrorista (anche se modificato per renderlo irriconoscibile), salvo poi eliminare il cinguettio. Da lì è un diluvio di immagini postate sui social. Tutte in violazione del «gag order». Divieto di pubblicazione che, ufficialmente, resta valido per un mese (30 giorni). Ma che, fa intendere Ari Gross, forse dovrebbe essere rivisto.

© Leonard Berberi

Standard
attualità

Araba, israeliana, cristiana: arriva da Nazareth la prima Miss Trans d’Israele

miss_trans_israel_2016

Tre delle finaliste di “Miss Trans Israele”. Dalla sinistra: Caroline Khour, araba, 24 anni; Aylin Ben-Zaken, arriva da un quartiere ultraortodosso, 27 anni; Ta’alin Abu Hanna, araba 21 enne, la vincitrice (foto di Dave Copeland/Nbc)

Più che un concorso di bellezza, il primo del genere, è stato uno spettacolo salva-vita. E un fiume di racconti, quasi tutti tragici, molti che han rischiato di finire nell’elenco – lungo, lunghissimo – di parenti che ammazzano familiari perché – a volte, spesso – la cecità non è negli occhi ma nel cervello. Alla fine di tutto questo ha vinto lei che prima era un lui: Ta’alin Abu Hanna, anni 21, araba, cristiana, israeliana, ballerina, nata e cresciuta a Nazareth e ora regina del primo «Miss Trans Israele» che si è svolto a Tel Aviv al teatro nazionale HaBima.

«Sono orgogliosa di essere arabo israeliana», sono state le prime parole di Ta’alin, fresca di vittoria, in abito bianco da simil-sposa, con in tasca un buono da 15 mila dollari per un intervento di chirurgia plastica da spendere in un ospedale in Tailandia dove l’attendono anche il volo – già pagato – e l’hotel, così come il viaggio direttissimo in Spagna, ad agosto, a rappresentare – per la prima volta – Israele al concorso mondiale «Miss Trans Star International».

miss_trans_israel

Ta’alin Abu Hanna subito dopo la vittoria, venerdì 27 maggio 2016 a Tel Aviv (foto di Luke Tress / Times of Israel)

«Se non fossi qui, in Israele, ma altrove in Medio Oriente non sarei a celebrare la vittoria ma a marcire in qualche galera o, peggio, già uccisa», ha detto lei ai giornalisti subito dopo la proclamazione. Ha battuto le altre 11 finaliste. Una più diversa dall’altra. C’era la musulmana e quella proveniente dal quartiere ultraordosso, la russa e la beduina. E però, tutto sommato, il filo sottile che corre sullo sfondo delle loro esistenze è lo stesso: la disapprovazione di genitori, l’odio dei fratelli, i tentativi di assassinio dei parenti.

Prendete, per esempio, Caroline Khouri. Ventiquattro anni, araba del paesino di Tamra, ha raccontato alla tv americana Nbc News la sua storia. Di quando i maschi della famiglia hanno tentato di farla fuori non appena hanno saputo che lei voleva diventare donna. «Mio padre, i miei cugini, mio cognato mi hanno prima picchiata, poi tagliato i capelli, quindi legata a letto e lasciata lì per tre giorni senza cibo». L’hanno salvata i poliziotti. Ma non i legami di sangue, tant’è che la sua casa è diventata un covo di gente che la disconosce.

Aylin Ben-Zaken, 27 anni, arriva da un quartiere ultraortodosso. «Quando ero un uomo sembravo un rabbino a tutti gli effetti», ricorda lei. Poi ha capito che quel corpo non le apparteneva. Così a 15 anni se n’è andata di casa. Ma ora, racconta non molto convinta, «la famiglia mi accetta. Se fino a tre anni fa non mi rivolgevano la parola ora mi invitano alla cena di Shabbat». La società si cambia anche così. Pasto dopo pasto.

© Leonard Berberi

Standard