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ANALISI / I dubbi di Obama, i timori d’Israele, il nervosismo dei Paesi arabi: così l’Occidente si prepara ad attaccare Assad

«Stanno aspettando tutti che lui decida cosa fare: se intervenire o aggiornare il contatore delle vittime civili in Siria». «Lui» è Barack Obama, il presidente statunitense sulla cui testa pende la decisione finale: rovesciare Bashar al-Assad oppure attendere ancora. Magari un via libera delle Nazioni Unite. Via libera che, spiegano da Gerusalemme, non ci sarà mai. Non solo per l’opposizione della Russia. Ma anche per una certa resistenza della Cina. E d’Israele. Che vorrebbe sì dare il benservito ad Assad, ma teme di trovarsi un altro Libano, altri gruppi di miliziani. E, addirittura, Al Qaeda.

Dallo Stato ebraico però confermano: decine di Paesi sono pronti da giorni con i loro eserciti. Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Turchia, Canada, Qatar, Arabia Saudita, Giordania sarebbero in prima linea. E lo dimostra anche la riunione che i vertici militari di questi Paesi hanno iniziato ieri proprio in Giordania per una due giorni «per fare il punto sulle conseguenze del conflitto in Siria». Al tavolo c’è anche l’americano Martin Dempsey, capo di Stato maggiore congiunto. «Niente di eccezionale, si tratta di un incontro programmato da mesi», hanno spiegato i giordani.

Il segretario di Stato Usa John Kerry ieri alla conferenza stampa sulla Siria (foto Manuel Balce Ceneta / Ap)

Il segretario di Stato Usa John Kerry ieri alla conferenza stampa sulla Siria (foto Manuel Balce Ceneta / Ap)

Programmato o no, sono i tempi a rendere l’appuntamento importante. Forse decisivo. Anche perché contemporaneamente a Washington i telefoni non hanno smesso di squillare tutto il giorno, ieri. E perché un altro incontro «programmato qualche settimana fa» non poteva capitare nel momento più «opportuno» per capire che succederà d’ora in avanti in Siria. Ieri a Washington è piombata una delegazione israeliana capeggiata da Yaakov Amidror, consigliere del premier Benjamin Netanyahu per la sicurezza nazionale. Al centro dei colloqui «la politica e la sicurezza». Netanyahu non può reggere un altro pezzo di confine gestito dall’altra parte da terroristi islamici. Già è dura tenere in sicurezza la frontiera con la Striscia di Gaza, il Sinai e il Libano. Se anche il Golan dovesse diventare instabile Gerusalemme potrebbe essere chiamato a uno stato d’allerta senza precedenti.

Le informazioni, in queste ore, convergono tutte in un’unica direzione: basta una parola e l’attacco ad Assad parte nel giro di pochi minuti. Ma Obama tergiversa. Anche troppo, secondo i sauditi. I quali, racconta un lungo resoconto del Wall Street Journal, il fine settimana hanno più volte contattato la Casa Bianca invitando l’inquilino numero uno a dare l’ok all’intervento militare «con o senza l’Onu». «Come presidente non puoi disegnare una linea rossa e poi non farla rispettare», raccontano fonti arabe al quotidiano americano.

«Proprio il prendere tempo da parte di Obama sta innervosendo i paesi del Golfo arabo», spiegano da Gerusalemme. «Ma non è una scelta facile, quella del presidente americano: se non esiste una strategia concreta per il dopo-Assad, la Siria rischia di diventare un protettorato di Al Qaeda».

«Lui», Obama, intanto ieri ha mandato in prima linea il segretario di Stato Usa John Kerry. «L’attacco con armi chimiche del 21 agosto in Siria ha sconvolto la coscienza del mondo perché è stato indiscriminato e su larga scala», ha detto ieri Kerry. «Il presidente Usa ritiene che chi ne è responsabile debba essere chiamato a risponderne. Per quel che mi riguarda il regime siriano ha qualcosa da nascondere», ha continuato Kerry. Seguito, poco dopo, dal portavoce della Casa Bianca Jay Carney. «È innegabile che in Siria siano state usate armi chimiche – ha spiegato Carney –. Continuiamo a rivedere le opzioni con i consiglieri nazionali, i partner internazionali e il Congresso». Quando ai piani di Obama, però, lo stesso Carney ha chiarito che «il presidente non ha ancora deciso cosa fare».

Un missile Tomahawk sparato da una nave militare americana

Un missile Tomahawk sparato da una nave militare americana

La diplomazia mondiale guarda alla finestra. S’interroga. Si chiede, soprattutto in Europa, se bisogna per forza aspettare Obama o non convenga muoversi subito. Per poi avere il sostegno Usa. Il presidente americano, nell’incontro di tre ore di sabato con i vertici militari e dell’intelligence, ha chiesto non soltanto di avere un resoconto delle opzioni sul campo, ma anche di informarsi se sia per forza necessario passare attraverso una decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu per attaccare militarmente Assad oppure si può procedere senza un voto internazionale magari facendo appello alla Convenzione di Ginevra e a quella sulle armi chimiche. Intanto – racconta l’emittente americana Cbs News – Obama ha ordinato la pubblicazione di un dossier «entro uno o due giorni» con quello che sta succedendo in Siria «prima che venga avviata qualsiasi azione militare».

Intanto bisogna registrare i movimenti nel Mediterraneo. Secondo il Guardian i primi aerei da guerra e trasporti militari britannici (C-130) sarebbero stati avvistati nei cieli di Cipro e nei pressi della base di Akrotiri, a soli 170 chilometri in linea d’aria dalla costa siriana. Quattro navi dell’esercito Usa da qualche giorno si trovano al largo del Medio Oriente. Un sottomarino britannico sarebbe arrivato nelle ultime ore ad affiancare altri due battenti bandiera statunitense.

«Se Obama darà l’ok i primi missili partiranno non prima del tramonto», ragionano da Gerusalemme. «Anzi, molto probabilmente saranno sparati nel cuore della notte». Il motivo? «La gente dorme a quell’ora, le strade sono vuote». L’obiettivo primario dei missili: i depositi di armi chimiche. Poi le altre postazioni militari. Così da neutralizzare Assad nel giro di poche ore. «Esattamente com’è successo con Gheddafi».

© Leonard Berberi

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Quei giovani europei che combattono in Siria. E ora sono sotto la lente dell’antiterrorismo

Due ribelli del gruppo jihadista Jabhat al-Nusra ad Aleppo in uno scatto del 24 dicembre scorso (foto di Ahmed Jadallah / Reuters)

Due ribelli del gruppo jihadista Jabhat al-Nusra ad Aleppo in uno scatto del 24 dicembre scorso (foto di Ahmed Jadallah / Reuters)

I numeri, a dire il vero, sono un po’ ballerini. Si va da un minimo di 135 a un massimo di 590. Però sono cifre prudenti. Il che la dice lunga su come, alla fin fine, il fenomeno sia davvero difficile da quantificare. E con il quale, prima o poi, bisognerà fare i conti. Anche da noi. Alcuni di loro torneranno a casa. «Molto più motivati e ispirati dal radicalismo islamico», per dirla con il capo dell’anti-terrorismo dell’Ue. Perché la maggior parte è fatta di giovani. Quasi tutti sono musulmani. E in tanti hanno già esperienze belliche. In Iraq o Afghanistan.

I conti, allora. Scrive un dossier dell’International centre for the study of radicalization (Icsr) che «centinaia di cittadini europei sono andati in Siria» negli ultimi mesi «per dare una mano ai ribelli a sconfiggere le forze del presidente Bashar Assad». Chi per ragioni religiose. Chi per spirito d’avventura. Chi per liberare un Paese.

Arrivano soprattutto da Regno Unito, Francia, Germania, Svezia e Belgio. Nessuno, per ora, arriva dall’Italia. Sono almeno 135 e potrebbero toccare quota 590. Di questi, come minimo 70 (e al massimo 441) sono ancora nel Paese. E potrebbero andare ad aumentare il numero delle vittime europee che per ora è fermo a 8 (su 249 stranieri uccisi in totale). Dall’inizio della guerra civile – correva l’anno 2011 – l’Icsr stima che tra i 2.000 e i 5.000 cittadini con un passaporto non siriano abbiano combattuto o lo stiano facendo tutt’ora nel Paese di fianco alle forze di opposizione.

Ecco, gli europei. Arrivano da Albania, Austria, Belgio, Regno Unito, Bulgaria, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Kosovo, Olanda, Spagna e Svezia. E su quasi tutti loro le agenzie d’intelligence investigheranno, ragioneranno. Perché in Siria da mesi è attiva Jabhat al-Nusra, gruppo jihadista legata ad al Qaeda. Perché gli europei possono trasformarsi in cellule dormienti a casa loro. E perché gli 007 temono possano tornare in patria sapendo costruire una bomba o, in generale, come far male a decine, centinaia di persone.

L'ex soldato americano Eric Harroun (a destra) insieme a un miliziano anti-Assad del gruppo Jabhat al-Nusra (foto da Facebook)

L’ex soldato americano Eric Harroun (a destra) insieme a un miliziano anti-Assad del gruppo Jabhat al-Nusra (foto da Facebook)

«Non sarebbe la prima volta. È successo che giovani europei siano andati a combattere in Afghanistan e in Iraq e poi siano tornati a casa dove hanno colpito interessi occidentali», spiega Peter Neumann, direttore dell’Icsr. «Non è detto che si tratti di terroristi. Ma non si può nemmeno evitare che, una volta arrivati in Siria, non vengano attratti da uomini legati ad Al Qaeda interessati a usarli più quando torneranno a casa che nel campo di battaglia mediorientale».

Neumann non è uno che si nasconde. Precisa che i numeri non sono definitivi e che va fatto ancora molto per quantificare il fenomeno. Ma di una cosa è convinto. «La Siria è diventato il fronte principale di mobilitazione e reclutamento dei jihadisti. E ora nel Paese sono stati mobilitati più europei di quanto non sia stato fatto nelle guerre degli ultimi vent’anni messe insieme».

Basterebbe, del resto, il nome di Eric Harroun. Nato a Phoenix, in Arizona, ex soldato a stelle e strisce nella base di Fort Riley, Harroun è stato arrestato appena atterrato negli Usa per aver combattuto in Siria a fianco al gruppo Jabhat al-Nusra. Rischia 30 anni di prigione. O la pena di morte, se il giudice dovesse considerare tutte le aggravanti.

© Leonard Berberi

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Siria, quella linea rossa che si sposta sempre più in là

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Fuoco, fiamme e distruzione ad Aleppo (foto Afp)

La sottile linea rossa, l’avevano chiamata. «Se abbiamo la minima certezza che Assad usa le armi chimiche contro i civili quello per noi sarà il segnale che bisogna intervenire», avevano detto in coro. Il premier israeliano Netanyahu, più pensando all’Iran che alla Siria. In seguito il presidente Usa, Barack Obama. Quindi un bel po’ di primi ministri europei.

Poi qualcosa è successo. E ora che ben quattro Paesi – Francia, Israele, Regno Unito e Stati Uniti – confermano l’uso di armi di distruzione di massa contro la popolazione siriana da parte dell’esercito del presidente Assad la «sottile» linea rossa diventa grossa, robusta, invalicabile (sotto un video che denuncia l’uso di gas nocivi). E nonostante le «prove satellitari e sulle vittime ci dicano che sono stati usati cloro e sarin contro gli innocenti», arrivano i distinguo. Le cautele. In alcuni casi giustificate. Chi può smentire, per esempio, che non siano i ribelli a usare armi chimiche per trascinare l’Occidente contro Assad? E chi può dire con certezza che le prove siano vere e non “taroccate” com’è successo qualche anno fa durante l’amministrazione Bush sui depositi pericolosi di Saddam Hussein in Iraq?

L’unica cosa certa, per ora, è che Israele è nervosa. A Gerusalemme sono convinti che parte delle munizioni chimiche di Damasco sia finita nelle mani dei miliziani di Hezbollah. Un timore noto da mesi. Ma ora, a sentire Binyamin Ben-Eliezer, ex ministro della Difesa, una realtà. Il politico ha anche chiesto l’intervento immediato della comunità internazionale per fermare il massacro di civili. Ma in questo caso, come nell’altro, manca la “pistola fumante”, la “prova regina”, la certezza assoluta che tutto questo stia succedendo. E lo Stato ebraico non ha nessuna intenzione di impiegare uomini e mezzi, di “scoprire” altri fronti per impegnarsi in Siria.

Una cautela estrema, consigliata soprattutto da Washington anche per non finire in un conflitto e fomentarne altri. Contro Hezbollah, appunto. Ma anche contro Hamas. Teheran. E la Russia. Mosca resta ancora al fianco di Assad. Anche se proprio ieri, un aereo di una compagnia moscovita (un Airbus A320) con 159 passeggeri a bordo ha segnalato di aver visto due missili terra-aria lanciati contro il velivolo. Velivolo che, in quel momento, stava passando sui cieli siriani. Nessuna vittima, per fortuna. Ma dalla capitale russa sono convinti che si sia trattato di un tentativo dei ribelli di trascinare dentro il pantano siriano anche loro, i russi.

© Leonard Berberi

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