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Il silenzio assenso sui raid israeliani e quell’asse arabo contro Hamas

Decine di carri armati dell'esercito israeliani si muovo verso la Striscia di Gaza dopo il lancio di razzi da parte di Hamas sul suolo dello Stato ebraico (foto di Ronen Zvulun/Reuters)

Decine di carri armati dell’esercito israeliani si muovo verso la Striscia di Gaza dopo il lancio di razzi da parte di Hamas sul suolo dello Stato ebraico (foto di Ronen Zvulun/Reuters)

«Voi bombardate pure le strutture di Hamas. Cercate di annichilirli. Noi, nel frattempo, non vi daremo più di tanto fastidio. Al massimo rilasceremo qualche dichiarazione». Il patto non scritto. L’accordo che non si può confermare. Lo scambio che non si può spiegare. Non ufficialmente, almeno. E una serie di alleanze saltate e altre costruite – persino con quello considerato il «nemico» fino a poche settimane fa – nel segreto delle diplomazie mediorientali.

Si parlerà a lungo di quest’estate torrida a cavallo tra l’Europa e l’Asia. E lo si farà perché quello che sta andando in scena aggiungerà un capitolo ai manuali sulle relazioni internazionali del terzo millennio. Nella notte tra giovedì e venerdì – e con un annuncio insolitamente congiunto – Stati Uniti e Nazioni Unite hanno svelato che lo Stato ebraico e Hamas hanno raggiunto un accordo per un cessate il fuoco umanitario di almeno 72 ore nella Striscia di Gaza dalle 8 di venerdì 1° agosto. Ma, ed è questa una delle novità, il segretario di Stato Usa John Kerry ha spiegato che «Israele continuerà le azioni difensive contro i tunnel di Hamas nelle ore di stop».

Fuoco e fumo a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, dopo un raid aereo dell'esercito israeliano (foto di Ibraheem Abu Mustafa/Reuters)

Fuoco e fumo a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, dopo un raid aereo dell’esercito israeliano (foto di Ibraheem Abu Mustafa/Reuters)

Nel frattempo le parti – con la mediazione del blocco arabo e degli Usa – cercheranno di raggiungere nei prossimi giorni un accordo «definitivo» al Cairo. Una piccola delegazione statunitense è già in viaggio. Quelle israeliana e palestinese pure. «Non si parleranno direttamente, Israele e Hamas», chiariscono diversi alti funzionari.

La tregua non tregua. La pace, momentanea, che pace non è. Tanto è cambiato rispetto a due anni fa. Stesso copione, stessi attori in campo. Ma alleanze diverse. E una condanna, quasi unanime a livello mondiale, che aveva costretto Gerusalemme a sedersi al tavolo con i miliziani palestinesi per firmare – controvoglia – una tregua. Ora non è più così. E, tolte le frasi di circostanza delle cancellerie di mezzo mondo, il dato di fatto è un altro: mai come questa volta il mondo è stato con Israele. Spesso non dicendo nulla. Il silenzio assenso. Anche dal mondo arabo.

Le lacrime di una donna palestinese dentro quello che resta del suo appartamento a Gaza City dopo l'attacco israeliano contro Hamas (foto di A Palestinian woman (L) cries inside her damaged house, which police said was targeted in an Israeli air strike, in Gaza City July 17. (Mohammed Salem/Reuters)

La disperazione di una donna palestinese dentro quello che resta del suo appartamento a Gaza City dopo l’attacco israeliano contro Hamas (foto di A Palestinian woman (L) cries inside her damaged house, which police said was targeted in an Israeli air strike, in Gaza City July 17. (Mohammed Salem/Reuters)

Diversi analisti concordano su un fatto: Hamas è isolato. Non ha l’appoggio dell’Autorità nazionale palestinese. Che, anzi, pare abbia fatto capire al governo Netanyahu di «approvare» un intervento israeliano contro Gaza. Proprio ora che la riconciliazione tra i due fratelli «coltelli» è stata siglata. Per dirla in gergo finanziario: Mahmoud Abbas, presidente dell’Anp, ha lanciato un’opa sulla Striscia. Non si accontenta di governarla. Vuole sbarazzarsi dei miliziani palestinesi.

Ad aver mutato lo scenario – in favore dello Stato ebraico – è anche il resto del Medio Oriente e del Nord Africa. In Egitto la situazione politica è cambiata. I militari non ne possono più di come viene amministrata la Striscia. E così, negli ultimi mesi, è andato costruendo un blocco di Paesi – Giordania, Arabia Saudita, Turchia ed Emirati Arabi Uniti – che sostanzialmente si sono allineati a Gerusalemme nel suo voler annientare Hamas. Non vogliono un altro pezzo in mano all’Islam radicale. Non vogliono un’altra simil teocrazia. Già sono difficili da gestire i fondamentalisti dell’Isis/Isil in Iraq e Siria. Così come quelli di Ansar al-Sharia in Libia.

Uno dei protagonisti del nuovo corso del mondo arabo: il presidente dell'Egitto Abdel Fattah al-Sisi (foto di A cease-fire proposal by President Abdel Fattah el-Sisi of Egypt met most of Israel’s demands; Hamas immediately rejected it. Fady Fars/Middle East News Agency/Ap)

Uno dei protagonisti del nuovo corso del mondo arabo: il presidente dell’Egitto Abdel Fattah al-Sisi (foto di A cease-fire proposal by President Abdel Fattah el-Sisi of Egypt met most of Israel’s demands; Hamas immediately rejected it. Fady Fars/Middle East News Agency/Ap)

E così, pur di non dover fronteggiare il radicalismo dei propri fratelli, diversi leader arabi si turano il naso e si «alleano» con l’odiato Netanyahu. Non c’è bisogno di un accordo scritto. Nemmeno di telefonate. Basta il silenzio. E il silenzio è stato così assordante attorno a queste tre settimane di bombe su Gaza che il messaggio, alla fine, l’hanno recepito anche i vertici di Hamas. Soprattutto quando, a un certo punto, gli egiziani hanno proposto una bozza per il cessate il fuoco che, questa volta, accoglieva quasi tutte le richieste d’Israele e nessuna – nessuna – dei miliziani palestinesi. Una bozza respinta, con fermezza, da Gaza.

Ora lo scenario è cambiato. I danni, per Hamas, sono ingenti. I depositi di munizioni si sono alleggeriti di molto. I civili morti fanno indignare, ma vengono attribuiti più alla miopia dei milizia che ai raid israeliani. E da fuori non arriva più nulla. Il tempo dirà cosa faranno i palestinesi della Striscia. Batteranno gli ultimi colpi prima della loro fine o opteranno per ancora qualche mese di vita. Anche se Udi Segal, analista per la tv israeliana Canale 2, pensa che gli incontri al Cairo non porteranno, nell’immediato a un cessate il fuoco.

Le lacrime di un soldato israeliano durante i funerali del capitano Natan Cohen, comandante di pattuglia, a Modiin, vicino Gerusalemme. Cohen aveva 23 anni ed è stato ucciso durante i combattimenti nella Striscia di Gaza (foto di Ariel Schalit/Ap)

Le lacrime di un soldato israeliano durante i funerali del capitano Natan Cohen, comandante di pattuglia, a Modiin, vicino Gerusalemme. Cohen aveva 23 anni ed è stato ucciso durante i combattimenti nella Striscia di Gaza (foto di Ariel Schalit/Ap)

Ma la strada è ormai segnata. E secondo più di un analista militare di Gerusalemme, «la Primavera araba ha insegnato ai leader di quel mondo che è preferibile tornare alla situazione iniziale: meglio il noto, magari anche se feroce per gli occidentali, che l’ignoto».

Se così sarà, Benjamin Netanyahu, primo ministro d’Israele, avrà registrato la sua vittoria – politica, militare, diplomatica – più importante. Sua e del suo Paese. Resteranno, questo è certo, le macerie. E soprattutto loro, le vittime. Almeno 1.373 palestinesi, 58 israeliani e un migrante.

© Leonard Berberi

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La solitudine di Netanyahu

Benjamin Netanyahu, primo ministro d'Israele e leader del partito "Likud"

Benjamin Netanyahu, primo ministro d’Israele e leader del partito “Likud”

L’occasione, dal punto di vista di Hamas, è storica: fare fuori, politicamente, il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Non a colpi di razzi. Non solo almeno. Ma dall’interno: con l’aiuto degli uomini di fiducia del primo ministro che negli ultimi giorni hanno preso le distanze da lui o, peggio, l’hanno apertamente attaccato. Non è un caso se proprio la formazione palestinese ha detto no, per ora, al piano di cessate il fuoco proposto dall’Egitto e accettato dallo Stato ebraico.

Sono giorni davvero difficili per Netanyahu. Da sempre considerato un «falco» della politica israeliana, ora – per paradosso – si sta rivelando l’uomo che non vuole far precipitare le cose. Ed è sempre meno appoggiato nella compagine governativa. Si rifiuta di mandare l’esercito a Gaza. Bolla come «rumore di fondo da non accogliere» le parole del suo (ormai ex) braccio destro Avigdor Lieberman: il ministro degli Esteri, infatti, ha proposto di invadere la Striscia «per farla finita una volta per tutte». Poi caccia dalla compagine di governo Danny Danon, viceministro della Difesa, uno degli uomini di punta del Likud, lo stesso partito del premier. Danon aveva pubblicamente criticato Netanyahu per aver accettato il piano egiziano per la tregua con Hamas: «La decisione del premier è uno schiaffo in faccia agl’israeliani», ha detto Danon.

Le scie di fumo lasciate dai razzi sparati da Gaza City verso Israele dal braccio armato di Hamas, martedì 15 luglio (foto di Thomas Coex/Afp)

Le scie di fumo lasciate dai razzi sparati da Gaza City verso Israele dal braccio armato di Hamas, martedì 15 luglio (foto di Thomas Coex/Afp)

Il comunicato sul «licenziamento» la dice lunga sullo stato di agitazione a Gerusalemme. È delle 20.35 di martedì 15 luglio. E bisogna ricordarsela l’ora. «In un momento in cui il governo d’Israele e l’esercito sono nel mezzo di una campagna militare contro le organizzazioni terroristiche e proprio quando stanno facendo di tutto per garantire la sicurezza dello Stato ebraico e dei suoi cittadini, non è accettabile che il viceministro della Difesa attacchi il vertice del Paese proprio sulla gestione della situazione. Alla luce delle sue frasi – che esprimono una mancanza di fiducia nel governo e, personalmente, nel primo ministro, ci si sarebbero aspettate le sue dimissioni. Ma visto che questo non è successo, io (Netanyahu, ndr) ho deciso di allontanarlo dal suo incarico».

L'ex viceministro della Difesa, Danny Danon (a sinistra) e il premier israeliano Benjamin Netanyahu in una delle ultime apparizioni insieme (foto di Tomer Neuberg/Flash90)

L’ex viceministro della Difesa, Danny Danon (a sinistra) e il premier israeliano Benjamin Netanyahu in una delle ultime apparizioni insieme (foto di Tomer Neuberg/Flash90)

Danon resta parlamentare, sempre nelle file del Likud. E non si capisce se Netanyahu l’abbia cacciato davvero per le sue frasi o, perché, temeva che proprio Danon avrebbe potuto prendersi la fetta più oltranzista del partito. Fatto sta che la replica dell’ex viceministro non si è fatta attendere. Ed è stata altrettanto dura. Durissima. Parte da lontano. E arriva alle redazioni dei giornali alle 20.36. Un minuto dopo la lettera di Netanyahu.

«Il primo ministro è capitolato di fronte al presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, nel momento in cui ha accettato di rilasciare 78 assassini per riprendere i negoziati, quando non ha reagito in modo duro quando i nostri tre ragazzi sono stati uccisi brutalmente e quando stamattina (ieri, ndr) ha accettato il cessate il fuoco con Hamas, rendendo così Israele ancora più debole. Io non potrei accettare l’aria di sconfitta che ormai domina il governo e non tradirei mai i miei valori in cambio della poltrona».

Il ministro israeliano degli Esteri, Avigdor Lieberman, nella conferenza stampa di martedì 15 luglio, dove invita a invadere Gaza (foto di Yonatan Sindel/Flash90)

Il ministro israeliano degli Esteri, Avigdor Lieberman, nella conferenza stampa di martedì 15 luglio, dove invita a invadere Gaza (foto di Yonatan Sindel/Flash90)

La verità è che più passano le ore, più Hamas continua a lanciare razzi, più le sirene continuano a suonare in metà dello Stato ebraico, più la leadership di Netanyahu è messa in discussione dai ministri stessi. Oltre a Lieberman, oltre a Danon, ci sono altre figure di spicco che ormai sono contro le decisioni di Netanyahu. E fanno capire che l’uomo dovrebbe andarsene. Molto critici sono i ministri Yisrael Katz (Likud) e Uzi Landau (Israel Beitenu, il partito di Lieberman).

«Il messaggio che viene dato agl’israeliani dai loro ministri è questo: Netanyahu non sa quello che sta facendo», sintetizzano diversi analisti sui giornali locali e sulle emittenti tv da giorni impegnati con le dirette non stop. «Ma quando la situazione si sarà ristabilita, se si sarà ristabilita, il premier dovrebbe fare i conti una volta per tutte con Lieberman e il suo partito».

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La preghiera interreligiosa e le speranze sui colloqui di pace

Il presidente israeliano Simon Peres saluta papa Francesco il 26 maggio scorso durante la visita del Pontefice nella residenza ufficiale del capo di Stato (foto Yonatan Sindel/Flash90)

Il presidente israeliano Simon Peres saluta papa Francesco il 26 maggio scorso durante la visita del Pontefice nella residenza ufficiale del capo di Stato (foto Yonatan Sindel/Flash90)

La speranza, forse l’ultima, è ancora su di loro. Gli «anziani». Duecentoquarantasei anni in tre. Ma più giovani, e giovanili, di molti cinquantenni. E quarantenni. Perché, pensano in molti, se si aspettano le nuove generazioni si rischiano soltanto perdite di tempi e facili illusioni. E incomprensioni. E morti. E decenni di tensioni.

Domenica 8 giugno il presidente israeliano Simon Peres, quello palestinese Mahmoud Abbas e papa Francesco si vedranno in Vaticano. Ufficialmente per pregare. Loro, di tre religioni diverse. Uno cattolico. L’altro ebreo. Il terzo musulmano. Ufficiosamente per riportare in vita un processo di pace che si è arenato nelle scorse settimane senza un perché. O, a sentire gl’israeliani, con un unico perché: la riunificazione di Fatah con la fazione estremista di Hamas.

Il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas dà il benvenuto a papa Francesco il 25 maggio a Betlemme, in Cisgiordania (foto Andrew Medichini/Pool)

Il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas dà il benvenuto a papa Francesco il 25 maggio a Betlemme, in Cisgiordania (foto Andrew Medichini/Pool)

Nessuno s’illude, però. Quello di domenica sarà sì un appuntamento storico, ma difficilmente cambierà le cose in Medio Oriente. Intanto è già qualcosa. Soprattutto se, da quelle parti, arriveranno in diretta le immagini di questi tre vecchietti che pregano. E con loro anche tre leader religiosi, uno in rappresentanza di ogni religione: un sacerdote, un rabbino e un imam.

La cerimonia – fa sapere l’ufficio stampa di Peres, vicino al termine del mandato presidenziale – si svolgerà in una località non religiosa. Nessun simbolo di questo o quel credo. Ma ci saranno le letture dei rispettivi testi sacri: il Nuovo Testamento, il Tanach e il Corano. Poi tutti a casa dopo qualche ora. Nella speranza che la saggezza degli anziani serva a qualcosa.

© Leonard Berberi

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