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Scontri, proteste e paura: tensione senza fine tra israeliani e palestinesi

Alcuni agenti israeliani con le pistole in mostra e un paio di colleghi mentre picchiano un palestinese che poco prima aveva lanciato pietre a Beit El, alla periferia di Ramallah, in Cisgiordania, il 7 ottobre 2015 (foto di Abbas Momani / Afp)

Alcuni agenti israeliani con le pistole in mostra e un paio di colleghi mentre picchiano un palestinese che poco prima aveva lanciato pietre a Beit El, alla periferia di Ramallah, in Cisgiordania, il 7 ottobre 2015 (foto di Abbas Momani / Afp)

Un sindaco che va in giro per la sua città armato di pistola semi-automatica trasformata in una carabinetta. L’immagine del nuovo volto d’Israele (e della Cisgiordania) sta forse nel video che la tv israeliana Canale 1 ha girato lunedì sera, 5 ottobre, in una via di Beit Hanina, quartiere a maggioranza araba della città contesa.

È qui che Nir Barkat, primo cittadino gerosolomitano, s’è presentato con l’arma – posseduta legalmente – salvo poi nasconderla in auto non appena ha visto la telecamera. «Non c’è nulla di male – ha fatto sapere il sindaco attraverso lo staff –, diversi attacchi palestinesi sono stati sventati da persone comuni ma armate». Ma Adnan Husseini, il numero uno dei palestinesi a Gerusalemme, ha bollato la presenza armata di Barkat «una dichiarazione di guerra».

Nir Barkat, sindaco di Gerusalemme, lunedì 5 ottobre 2015 con un'arma in un quartiere della città (fermo immagine da Canale 1)

Nir Barkat, sindaco di Gerusalemme, lunedì 5 ottobre 2015 con un’arma in un quartiere della città (fermo immagine da Canale 1)

Più passano le ore e più quella che molti chiamano «Intifada 3.0» si allarga. Gerusalemme non è più l’unico luogo dove ebrei e musulmani si menano e si accoltellano, si attaccano e si uccidono. Gli incidenti ora interessano parte della Cisgiordania e si avvicinano a Tel Aviv interessando Petah Tikva (video sotto), Kiryat Gat, Lod.

Le forze di polizia sono state mandate anche a presidiare alcune vie di Jaffa, a sud di Tel Aviv, per monitorare la situazione. Per questo il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha deciso di cancellare all’ultimo una visita – molto attesa – in Germania e chiesto alla sua polizia di proibire l’accesso alla Spianata delle moschee, luogo dove pregano i musulmani, ai suoi ministri e ai deputati del parlamento.

Poliziotti nelle vie di Jaffa, alla periferia di Tel Aviv, martedì 6 ottobre 2015 (foto Tomer Neuberg / Flash90)

Poliziotti nelle vie di Jaffa, alla periferia di Tel Aviv, martedì 6 ottobre 2015 (foto Tomer Neuberg / Flash90)

In pochi giorni il bilancio è di quattro israeliani uccisi a coltellate – per strada, in auto, nelle vie di Gerusalemme – e cinque palestinesi (compresi i tre assalitori degl’israeliani) ammazzati. Nove morti, decine di feriti, una tensione che, a questo punto, né Netanyahu, né il presidente palestinese Abu Mazen sembrano in grado di fermare.

In Cisgiordania ci sono decine di scontri tra palestinesi e forze armate israeliane. Pietre, molotov, colpi di arma da fuoco, oggetti vari. Si lancia di tutto e si spara ovunque sotto l’occhio di macchine fotografiche e telecamere. Tanto che sta facendo il giro della Rete il filmato di agenti israeliani infiltrati tra i rivoltosi mentre picchiano con calci e pugni un palestinese che poco prima lanciava sassi.

L’intelligence israeliana intanto è in subbuglio per quello che potrebbe succedere venerdì 9 ottobre. Giorno di preghiera per i musulmani, ma anche giorno – temono gli 007 – che potrebbe dare il via libera alle violenze vere e proprie dei palestinesi contro gl’israeliani e, soprattutto, i coloni. Non è un caso se nelle ultime ore – secondo i bene informati – centinaia di militari sono stati inviati in Cisgiordania a rafforzare la sicurezza nei grandi insediamenti.

© Leonard Berberi

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La violenza continua e il timore dello stillicidio quotidiano

Un israeliano porta via un bimbo dalla scena del duplice omicidio nella città vecchia di Gerusalemme il 3 settembre 2015 (foto via Twitter)

Un israeliano porta via un bimbo dalla scena del duplice omicidio nella città vecchia di Gerusalemme il 3 ottobre 2015 (foto di Jonatan Sindel/Flash 90)

È il marzo 2011. La famiglia Fogel – papà Udi (36 anni), mamma Ruth (35) e i piccoli Yoav (11), Elad (4) e Hadas (3 mesi) – è stata uccisa poche ore prima dai cugini palestinesi Awad a Itamar, insediamento ebraico in Cisgiordania. È un massacro. Di quelli, per intenderci, che avrebbero scatenato un’offensiva militare in West Bank. Succede però poco o nulla. Anche se, nei tanti incontri con i vertici della sicurezza, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sente, per la prima volta, le parole «Terza intifada». Uno scontro diretto, tra ebrei e musulmani, diverso dalle altre due intifade perché non concentrato in pochi giorni, ma diluito nel tempo. In pratica: uno stillicidio. Lento. Quotidiano. Un attacco di qua. Un’aggressione di là.

Poi ci pensa la Striscia di Gaza a distogliere l’attenzione. Ma quello stillicidio è continuato per mesi. Fino a crescere d’intensità. Fino ad arrivare all’ultimo, ennesimo massacro di sabato sera. Ma stavolta nella città vecchia di Gerusalemme, casa di circa 40 mila persone tra ebrei, musulmani, cristiani. Soprattutto: il cuore turistico-religioso d’Israele, ché è là dentro che si trovano il Muro del Pianto e la Moschea di Al Aqsa fino ad arrivare alla Via Dolorosa.

I poliziotti israeliani sul luogo del duplice omicidio, dentro la città vecchia di Gerusalemme, sabato 3 settembre 2015 (foto di Yonatan Sindel/Flash90)

I poliziotti israeliani sul luogo del duplice omicidio, dentro la città vecchia di Gerusalemme, sabato 3 ottobre 2015 (foto di Yonatan Sindel/Flash90)

Nehemia Lavi, 41 anni, e Aharon Benet, 22, sono così finiti il 3 ottobre nella lunga lista delle vittime di uno scontro tra israeliani e palestinesi che ne ammazza pochi in un atto, ma tantissimi giorno dopo giorno. Sono stati accoltellati, proprio nella Gerusalemme vecchia, da un 19enne palestinese, Muhammad Shafeq Halabi, ucciso poi dalla polizia israeliana. Halabi è partito da al-Bire, villaggio vicino Ramallah, in Cisgiordania e s’è scagliato contro gli ultraortodossi. Tre morti, un ferito grave (la moglie di Benet, ricoverata in rianimazione) e il figlio di due anni di Benet, ferito leggermente.

Poi, nel cuore della notte – tra sabato e domenica – il terrore è ripiombato a Gerusalemme. Stavolta nei pressi della Porta di Damasco, uno degl’ingressi alla Città vecchia. Un quarantenne arabo si scaglia contro un ebreo 15enne. Lo accoltella. Poi viene ucciso dai poliziotti.

I due uomini uccisi nella città vecchia di Gerusalemme: Nehemia Lavi, 41 (a sinistra) di Gerusalemme, e Aharon Benet, 22 (destra) di Beitar Ilit

I due uomini uccisi nella città vecchia di Gerusalemme: Nehemia Lavi, 41 (a sinistra) di Gerusalemme, e Aharon Benet, 22 (destra) di Beitar Ilit

Il premier Netanyahu ha convocato i vertici della sicurezza appena atterrerà a Tel Aviv. Non ha nascosto l’irritazione per il fallimento della polizia nel prevenire le aggressioni. Soprattutto perché in meno di una settimana è la seconda azione contro gl’israeliani. Due giorni prima Naama ed Eitan Henkin sono stati trucidati, in auto e davanti ai tre figli, mentre tornavano a casa, tra gl’insediamenti di Itamar ed Elon Moreh, vicino al villaggio palestinese di Beit Furik, a due passi da Nablus.

Muhammad Shafeq Halabi, palestinese di 19 anni, presunto assassino dei due israeliani a Gerusalemme (foto da Facebook)

Muhammad Shafeq Halabi, palestinese di 19 anni, presunto assassino dei due israeliani a Gerusalemme (foto da Facebook)

E ora? L’ala dura del governo Netanyahu – che si regge su un solo voto di vantaggio in parlamento – preme per l’azione decisa in Cisgiordania. L’ala moderata resta in silenzio. L’opposizione denuncia che il primo ministro ha perso il controllo del territorio. Lui, Bibi Netanyahu, ha promesso una risposta dura. Dopo settimane in cui i consiglieri più stretti gli suggerivano di non esagerare. Perché in ballo c’era la possibilità di strappare qualcosa sull’accordo sul nucleare tra Usa e Iran, perché il fronte siriano preoccupa di più e perché, in questo momento, al di fuori d’Israele lo sopportano in pochi.

Ma Netanyahu sa benissimo che qualcosa dovrà pur farlo. Per placare l’ira dei suoi sostenitori negl’insediamenti. Per fermare qualsiasi ondata oltranzista in Israele e in Cisgiordania. Per evitare che oggi siano i coloni a uccidere arabi e domani gli arabi a trucidare ebrei e dopodomani gl’israeliani a massacrare gl’islamici. L’unica soluzione che, però, gli offrono i suoi consiglieri militari è la mano pesante in West Bank, ora che pure il presidente palestinese (uscente?), Mahmoud Abbas, alle Nazioni Unite ha di fatto dichiarato sepolti gli accordi di Oslo. Le prossime ore diranno chi l’avrà vinta: i falchi o le colombe. La sensazione è che, in questo momento, pure le colombe vogliono quel che vogliono i falchi.

© Leonard Berberi

AGGIORNAMENTO DELLE 4.45: Il presunto accoltellatore del 15enne israeliano sarebbe, secondo i media palestinesi, Fadi Aloon

CORREZIONE: Le didascalie delle prime due foto riportavano – per errore – la data del 3 settembre 2015. Ovviamente si tratta del 3 ottobre 2015

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Una crisi senza vincitori

Alcuni israeliani si rifugiano sotto a un ponte di Tel Aviv mentre le sirene annunciano l'arrivo di alcuni razzi sparati da Hamas (foto Tomer Neuberg/Flash90)

Alcuni israeliani si rifugiano sotto a un ponte di Tel Aviv mentre le sirene annunciano l’arrivo di alcuni razzi sparati da Hamas (foto Tomer Neuberg/Flash90)

E insomma rieccoci. All’ennesimo segmento della storia mediorientale con razzi e missili, vittime e paura, minacce e cinguettii. E moniti internazionali. E telefonate dei leader stranieri che cercano di capire cosa sta succedendo in questo pezzo di mondo dove la calma sembra ormai diventata la pausa pubblicitaria tra un reality (horror) show e l’altro. E su queste inquadrature tutte rivolte verso il cielo dove all’improvviso s’innestano sirene e strisce bianche che salgono verso l’alto e poi si dissolvono in una piccola nuvoletta.

E insomma rieccoci. Ci eravamo lasciati – si fa per dire – con quei tre giovani poveretti ebrei rapiti e uccisi subito in Cisgiordania. E quel loro quasi coetaneo, palestinese, preso come si sceglie un vitellino, torturato e infine bruciato vivo ché quello era l’unico modo – secondo gli autori – di vendicare la morte dei tre massacrati. E ora rieccoci qui. A scrivere l’ennesimo capitolo di un conflitto di cui si è perso il senso e l’inizio.

Quello che resta della casa di Taysir al-Batsh, il capo della polizia di Gaza, dopo il bombardamento israeliano (foto Hatem Moussa/Ap)

Quello che resta della casa di Taysir al-Batsh, il capo della polizia di Gaza, dopo il bombardamento israeliano (foto Hatem Moussa/Ap)

La verità – mentre dall’8 luglio a ieri almeno 900 razzi sono stati sparati da Gaza verso il suolo israeliano –, ecco, la verità è che in questo ennesimo paragrafo nessuno può vincere. E niente cambierà. Se non per quelli che muoiono. Per le loro famiglie. E per chi deve passare l’ennesima settimana col fiato in gola e una paura che non fa dormire e angoscia.

Israele non può permettersi di perdere il «referente» sulla Striscia. Conosce i vertici di Hamas. Sa dove vivono. Registra tutti i loro movimenti. Annota i loro piani. Ma se Hamas dovesse venire meno a Gaza andrebbero al potere i gruppi più radicali. E più imprevedibili. Dall’altra parte anche Hamas sa che non può vincerla questa ennesima «guerra». Non ne ha i mezzi. Non ha gli uomini. E, in fondo, non è il suo obiettivo politico.

Un vigile del fuoco di Gaza City vicino alle fiamme in un deposito delle Nazioni Unite dopo l'attacco israeliano (foto Mahmud Hams/Afp)

Un vigile del fuoco di Gaza City vicino alle fiamme in un deposito delle Nazioni Unite dopo l’attacco israeliano (foto Mahmud Hams/Afp)

Eppure si spara. Eppure si muore. E ai vertici ognuno ha i suoi di piani. Il premier israeliano Netanyahu deve tirare avanti ancora alcuni mesi con la sua coalizione di centro-destra che negli ultimi giorni s’è trasformata in una sorta di Armata Brancaleone con leader che quasi si strappano le vesti (e intanto strappano pezzi di accordi politico-elettorali). I leader di Hamas hanno un’altra urgenza: trovare soldi. Dall’Egitto sono mesi che non arriva quasi più nulla. Da Ramallah – la capitale designata del futuro Stato della Palestina – i fondi procedono a singhiozzo. Alla fine un territorio con almeno 1,7 milioni di persone bisogna pur gestirlo. Servono i contanti per pagare gli stipendi. E per far andare la «macchina».

Eppure si minaccia. Con Netanyahu che fa capire di essere pronto all’invasione via terra. Pur sapendo benissimo – lui, la sua coalizione, Israele e i palestinesi – che no, lo Stato ebraico non può spingersi a così tanto. Non ora almeno. Ma intanto mobilita «più di 30 mila riservisti» (secondo l’esercito israeliano) o «42 mila soldati» (secondo la tv locale Canale 2). Numeri che spaventano quelli di Hamas. Ma non quanto il rosso nelle sue casse pubbliche.

E insomma rieccoci. All’ennesimo segmento della storia mediorientale. In attesa del nuovo accordo che sancisca la fine delle ostilità. E delle foto con le strette di mano. E la soddisfazione dei «mediatori». E di quella domanda che aleggia, ma che nessuno – a questo punto e a questa latitudine – si pone più ormai: ma a che è servito tutto questo?

© Leonard Berberi

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