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Colloqui di pace, la solitudine del negoziatore Livni: “Troppi falchi dietro a Netanyahu”

«E alla pace con i palestinesi chi ci pensa?». La domanda proprio non se l’aspettava Tzipi Livni. Stava girando le bancarelle di Shuk Ha’Carmel, il mercato alimentare più grande di Tel Aviv. Le elezioni del 10 febbraio 2009 erano alle porte e lei, letti i sondaggi, doveva darsi assolutamente da fare per guadagnare ancora qualche voto. «Prima o poi qualcuno dovrà assumersi la responsabilità di sedersi a un tavolo e parlare con Ramallah», continuò l’uomo. Livni non rispose. Abbozzò un sorriso. Ma non dimenticò.

Quell’anno la pupilla di Ariel Sharon vinse. Ma senza avere la maggioranza di seggi. Così il governo lo formò Benjamin Netanyahu, il secondo arrivato. Lo stesso che ora, nel 2013, le ha affidato il ministero della Giustizia. E soprattutto la nomina a capo della delegazione israeliana per i negoziati diretti con i palestinesi.

Tzipi Livni, 55 anni

Tzipi Livni, 55 anni

«È vero – confidò Livni ai suoi consiglieri politici – qui ci siamo tutti dimenticati della pace con i palestinesi. Prima o poi sarà la questione a travolgerci se non faremo nulla». Passarono i mesi. E anche gli anni. I colloqui di pace continuavano ad essere fermi dal 2008. E anche alle ultime elezioni la questione israelo-palestinese non fu affrontata da nessun partito. Nemmeno dai «comunisti» del partito Meretz.

Poi arrivò la chiamata da Washington. Nelle ultime settimane sono state rispolverate agende e telefoni diretti, consiglieri e diplomatici. Soprattutto: i lunghi incontri che finiscono a tarda sera. L’ultimo, ieri, s’è chiuso poco prima di mezzanotte. Bocche cucite. Nessuna dichiarazione pubblica. Zero strette di mano. Soltanto un tweet, di Mia Bengel, la portavoce di Tzipi Livni. «Il prossimo incontro ci sarà a breve», cinguetta Bengel. Senza dire quando, dove, come, con chi. E soprattutto: senza spiegare su cosa si sta discutendo.

È il nuovo corso della Storia? Lei, Livni, ne è convinta. E da giorni va dicendo ai suoi amici più intimi che sente un’enorme responsabilità sulle spalle. Un peso che vuole scrollarsi di dosso. «Quell’accordo deve essere assolutamente firmato, noi dobbiamo chiudere decenni di violenze e incomprensioni». Il ministro della Giustizia lo sa: se ci riuscisse questo la proietterebbe sicuramente nei libri di Storia di tutto il mondo. Per non parlare della sua carriera politica. Oggi e domani.

Non sarà facile. E questo Livni lo sa. Soprattutto perché nel governo suo, quello guidato da Netanyahu, «è pieno di falchi che non vedono l’ora di far saltare tutto e per questo mi stanno rendendo difficilissimo il lavoro». Parole che il capo dei negoziatori di Gerusalemme ha detto alla Radio israeliana. Ed è stata l’unica «rottura» del protocollo imposto dal segretario di Stato Usa, John Kerry, che ha speso un mese per convincere entrambe le parti non solo a tornare a parlarsi, ma anche a non rivelare nessun dettaglio degli incontri.

«Israele è chiamata a prendere delle decisioni drammatiche», ha continuato a diffondere nell’etere Livni, «perché l’obiettivo finale è quello di porre fine al conflitto con i palestinesi». E quando le hanno chiesto qualche informazione in più sui colloqui di ieri, il ministro della Giustizia non ha detto una parola in più: «più i negoziati stanno lontani dalla luce dei riflettori meglio è per tutti».

Il capo dei negoziatori palestinesi Saeb Erekat (il primo da sinistra) insieme al segretario di Stato Usa John Kerry e il ministro della Giustizia israeliana Tzipi Livni lo scorso luglio a Washington per annunciare la ripresa ufficiale dei colloqui di pace (foto Ap)

Il capo dei negoziatori palestinesi Saeb Erekat (il primo da sinistra) insieme al segretario di Stato Usa John Kerry e il ministro della Giustizia israeliana Tzipi Livni lo scorso luglio a Washington per annunciare la ripresa ufficiale dei colloqui di pace (foto Ap)

Nel 2008 i negoziati fallirono nel giro di poco tempo per due motivi: gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e la richiesta palestinese di avere un proprio Stato. E proprio i coloni sono stati al centro dei preparativi di questi mesi. Ramallah poneva come condizione base per la ripresa dei colloqui il congelamento delle nuove costruzioni israeliane nella West Bank. Diktat respinto da Netanyahu. Fino a quando John Kerry non mise d’accordo le parti su una soluzione più realizzabile nell’immediato: il rilascio di decine di palestinesi detenuti per aver ucciso civili e soldati israeliani in cambio di nuovi giri diplomatici tra Gerusalemme e Ramallah.

Ramallah che, oggi più di prima, è tornata a porre tra i punti principali dell’accordo la creazione dello Stato della Palestina. Richiesta che trova contrario almeno un partito al governo. «Non è un mistero – ha continuato Livni alla radio – che c’è una formazione che non condivide l’idea dell’esistenza di due Stati nell’area». Non ha fatto nomi. Ma il riferimento era a Naftali Bennett, capo del partito “Jewish Home Party”, ministro dell’Economia e alleato con una formazione di coloni.

Bennett non è l’unico a pensarla così. Decine di migliaia d’israeliani non vogliono lasciare pezzi della Cisgiordania e Gerusalemme Est. Soprattutto dopo aver mollato la Striscia di Gaza poi conquistata da Hamas che proprio da lì da anni tormenta lo Stato ebraico con missili e razzi e rapimenti. Cose che Livni sa, conosce, tiene in considerazione. Ma proprio quel «decisioni drammatiche» sembra voler preparare tutti gl’israeliani a quello che potrebbe – forse deve – succedere per stare tranquilli nella propria casa.

Cinquantacinque anni, Tzipora Malka Livni (vero nome di Tzipi) sa come destreggiarsi nella politica e nella diplomazia. Non a caso è stata anche ministro degli Esteri, durante il governo di Ehud Olmert. Seconda donna a ricoprire l’incarico dopo Golda Meir. Ma sa anche che, a differenza di Meir, oltre ai «falchi» del suo governo, oltre a quegl’israeliani che non vogliono nemmeno sedersi al tavolo con i palestinesi, oltre ai coloni da settimane sul piede di guerra con Gerusalemme, ecco, oltre a tutto questo, lei deve anche affrontare forse l’argomento più delicato di fronte agli ebrei ultraortodossi: l’essere una donna.

«È venuto il momento di prendere delle decisioni drammatiche», ha ripetuto ieri, quasi fosse un mantra. Consapevole, lei e milioni d’israeliani, che questi sono i mesi dell’«ora o mai più».

© Leonard Berberi

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